Verso la fine degli anni ’90 la
Earache Records tentò – cavalcando l’onda del momento del metal moderno e contaminato che veniva da oltreoceano – di allargare i propri orizzonti.
Nata come etichetta estrema di death metal e grindcore, nel ’98 imbarcò in un tour, chiamato
Next Gen Tour, le nuove band che aveva messo sotto contratto e che dovevano rappresentare il futuro del sound dell’etichetta. Tra queste bands (
Janus Stark,
Misery Loves Co.,
Ultraviolence,
Dub War, ect.) c’erano anche i misconosciuti
Pulkas, band proveniente dai sobborghi londinesi della working class.
La band aveva da poco pubblicato il debutto, primo e unico disco della band, il qui presente “
Greed”.
Ricordo che all’epoca mi facevo di
Machine Head,
Korn,
Sepultura,
Fear Factory e compagnia cantante, era difficile rimanere stupiti in un periodo così fecondo per la musica estrema, eppure il primo ascolto di “
Greed” fu una folgorazione.
Mettiamo subito le carte in tavola, questo disco è un capolavoro e, per chi scrive, uno dei migliori dischi usciti dagli anni ’90. All’epoca furono etichettati Nu Metal, per via del suono contaminato tipico della musica di quei tempi, ma si badi bene, qui se contaminazione c’è, e c’è, non riguarda le derive più alternative di oltreoceano.
I
Pulkas hanno solide radici metal, thrash per la precisione, sulle quale innestano claustrofobici patterns industriali e un’attitudine punk/hardcore fatta e finita. In tal senso il loro suono era ‘nuovo’, suonava moderno. Epperò non moderno come quello dei
Fear Factory, che producevano la loro musica in lucenti laboratori ultratecnologici e asettici. I
Pulkas lavoravano nelle viscere della terra con macchine non automatizzate, bensì meccaniche, fatte più di metallo che di silicio, dal tipico clangore sordo e cupo.
L’iniziale “
Loaded” ci introduce subito ad un sound cupo, claustrofobico, dal groove involuto e pulsante, pronto ad esplosioni di rabbia, con il singer
Luke Lloyd che istericamente dà sfogo a vocals nervose, vetrioliche. È musica che ti rimbalza in gola, che ti fa venire voglia di urlare fino a farti sanguinare le corde vocali, disperatamente disperata. La periferia inglese non deve essere un bel posto.
“
Rubber Room” ha un riff circolare innestato in un magma di note di basso ribollenti che fanno da tappeto all’aggressività vocale del singer che deraglia nello scriteriato, iperamplificato e clamoroso finale.
“
Hippy Fascist” è tensione liquida, permea tutto, ti entra nei pori e, come una scarica di adrenalina, ti fa sussultare, senza che tu possa farci niente. Ancora una volta l’alternanza tra parti riflessive e meditate e altre al calor bianco esalta il complesso, dando una perfetta definizione di sound cinematico. È pura accademia, e grandissima musica.
“
Betrayal” è esempio lampante di musica schizoide, paranoica, rimuginata e poi vomitata in maniera furente.
“
Control” è forse il pezzo migliore dell’album e, contrariamente al titolo, è assolutamente fuori controllo, pervasa dall’urgenza sonora della band. Il ritornello è una folata devastante che ciclicamente torna a sferzare i padiglioni auricolari dell’ascoltatore. La canzone ha anche un’atmosfera notturna, che si dissolve nel mastodontico e parossistico finale.
Quando pensi di avere tra le mani un discone ecco che arriva “
This Is It”.
“
This Is It” è la miglior canzone punk mai scritta, ma anche la miglior canzone boogie woogie metal, un pezzo per il quale i
Dead Kennedys avrebbero ucciso. Veloce, energica, inarrestabile, inesauribile e con un finale massiccio, cattivo e assolutamente scomposto.
“
Rebirth” pone l’accento sul lato più oscuro e noisy della band, una canzone dura e affilata, ruvidissima.
Con “
Flesh” si torna su territori più dinamici, sembra di camminare su un campo minato laddove ad ogni passo si rischia di saltare. E di salti questa canzone ne promette tanti, grazie alla sua andatura up tempos sebbene inserita in una solida e quadrata struttura compositiva. Anche qui
Luke regala vocals che ti deflagrano dentro.
La conclusiva “
Close To The Enemy” è il degno sipario di un disco che è un monumento alla rabbia urbana, alla violenza disarticolata ed esasperata delle periferie di tutto il mondo.
Dei
Pulkas si sono purtroppo perse le tracce. La band si sciolse un paio di anni dopo il debutto e
la Earache Records sostiene che ciò fu dovuto ai problemi legali relativi ad un contratto di tre album che la band non volle rispettare, ingaggiando una battaglia giudiziaria che li portò a mettere la parola fine. Più tardi la band si riformò con un nuovo batterista, cambiando moniker in
I-Am-I, ma a parte un demo non produsse altro. È un vero peccato perché non sapremo mai se i
Pulaks avevano davvero talento, come indiscutibilmente dimostra “
Greed”, oppure se azzeccarono semplicemente il disco della vita.
Questo è vaffanculo metal, quello che ti fa venire voglia di spaccare il mondo intero.
Pian piano sto riscoprendo i dischi coi quali sono cresciuto e che mi piace siano presenti nel database di metal.it affinché anche altri possano riscoprirli. Questo in particolare non può mancare nella vostra collezione.