Togliamoci subito il “proverbiale” dente. La caratteristica principale dei
Last Code non è di certo l’originalità. Il loro
metal –prog screziato di
power non sorprenderà sicuramente gli estimatori del genere, in grado di riconoscere facilmente le
stimmate di Dream Theater, Shadow Gallery, Royal Hunt, Vanden Plas e Ayreon nel lavoro dei nostri siciliani.
Accantonata una questione purtroppo
annosa un po’ in tutti i campi musicali, non ci resta che valutare se tali influenze sono state metabolizzate e vitalizzate, in una maniera tale da soddisfare i suddetti
aficionados, allettati da un’offerta sempre molto ampia e agguerrita.
Beh, l’esito è controverso, nel senso che in “Heritage of pain” ci sono discrete idee e buona tecnica strumentale, mentre arrangiamenti, suoni e voce avrebbero bisogno di una regolazione più precisa, pur ricordando che l’ambito dell’autoproduzione non garantisce verosimilmente le condizioni migliori in cui far rendere al massimo le proprie qualità.
Le riserve sulla laringe di Salvo Santoro, che pure piace per dotazioni emozionali, riguardano certe piccole sbavature d’intonazione, così come non convincono completamente un
drum-sound spesso troppo asettico e strutture compositive non sempre “a fuoco”, talvolta eccessivamente tentate dal “numero ad affetto” che finisce per dilatarle a dismisura anche quando sarebbe preferibile optare per soluzioni maggiormente concise e incisive.
Un chitarrista assai preparato e un eccellente tastierista assicurano affidabilità e sensibilità in due ruoli essenziali e lo stesso
songwriting, al netto delle summenzionate modeste prolissità, si può tranquillamente annoverare tra gli aspetti positivi del dischetto, incapace di stimolare sperticati entusiasmi eppure moderatamente avvincente, soprattutto per come dimostra di saper gestire efficacemente l’incrocio tra partiture tipicamente
progressive e aperture sonore enfatiche ed evocative.
“Empty sphere” (bello il tocco oriental-
eggiante), il suggestivo crescendo epico di “Judgement of fate”, il
pathos raffinato e magniloquente di “Land: one” e ancora il volubile
tour-de- force “The day that should never arise”, così, pur nel loro “rigore” stilistico, si dimostrano brani abbastanza piacevoli, in grado di offrire spunti utili a non allontanare anche il più smaliziato del
prog-metallers, non ultima la capacità di trattare con acume un
plot lirico ispirato alle profezie dei Maya, un argomento senza dubbio ad elevato “rischio di banalità”.
Al momento alla band isolana per essere davvero funzionale e tecnicamente impeccabile, e in questo modo eguagliare tanti dei suoi colleghi di settore, manca ancora un pizzico di accuratezza e concisione (oltre che una produzione più equilibrata), ma francamente non è questa la mia
preoccupazione maggiore … per emergere in maniera veramente risoluta e offrire una reale “alternativa” alla marea di ottimi interpreti già disponibile sul mercato, bisognerà rendere ancora più intraprendente e temperamentale la propria proposta artistica … una sfida senz’altro impegnativa e ambiziosa che chi non si accontenta di essere “uno dei tanti” deve inevitabilmente affrontare … non resta che attendere gli sviluppi e vedere da che “parte” stanno i Last Code.
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