Samotracia è una delle tante isole greche dell’Egeo, assai nota per il ritrovamento di una statua raffigurante la “Nike” ovvero l’antica dea alata della Vittoria, soggetto della cover di questo album. Difficile coniugare la millenaria civiltà ellenistica con la prosaica e depressiva Seattle, ma il nome scelto dal quartetto americano è proprio questo.
Il disco dei
Samothrace dovrebbe rientrare nel filone “funeral” doom, cioè musica lenta ed angosciante spinta quasi all’eccesso, ma in realtà è un progetto particolare che sfugge le facili definizioni. Intanto i pezzi sono soltanto due, di dieci e venti minuti, ed il primo è la rielaborazione di un brano del demo, datato 2007. Se pensiamo che l’unico album è stato pubblicato l’anno seguente, il quartetto ha impiegato circa quattro anni per realizzare una sola canzone: la monumentale “A horse of our own”.
E qui siamo di fronte ad una grandissima jam-song che si snoda in un percorso irto di maestosità, sofferente introspezione, urla dementi e lunghi assoli dal timbro blues offerti dal leader Bryan Spinks. La materia doom viene plasmata e diluita senza perdere nulla dell’atmosfera profonda di tale genere musicale, ma il sentiero resta tortuoso e prevede anche dosi di feedback, echi e riverberi, per completare l’architettura non-lineare.
Meno esaltante l’altro brano, come detto composto diversi anni fa, con la parte centrale sostenuta da un mid-tempo ed il finale gravido di distorsioni.
Un disco dall’incedere lento ed ipnotico, che trova i suoi punti di forza negli svolazzi liquidi delle chitarre e nell’alternanza di toni plumbei e passaggi più rarefatti ed evocativi. Nell’ambito del funeral doom, una buona uscita da consigliare agli appassionati.
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?