Il fatto che Scott Kelly, membro fondatore dei Neurosis e attivissimo musicista, sia particolarmente legato alle sonorità folk statunitensi, ormai non è più un mistero. Già in passato album solisti e il recente disco tributo a Townes Van Zandt ci avevano mostrato un volto inedito e intimo di Kelly.
Questo nuovo disco ripercorre esattamente la stessa strada, con otto tracce per chitarre e voci che pescano a piene mani dalla peggiore tradizione americana.
Dico peggiore, consentitemelo, perché le canzoni sono lente, macchinose e incredibilmente tristi. Non pensate al southern rock o al country che conoscete, non pensate a niente altro. Qui siamo alle radici del cantautorato, all’esplorazione mistica del proprio io.
Ora, posso anche immaginare che per Scott Kelly esperienze di questo tipo siano artisticamente appaganti e personalmente rilassanti. Ma per l’ascoltatore dopo un po’ diventa una tortura.
Senza voto, perché non escludo che possa anche piacere tuffarsi in un mare di catatonica mestizia. A me personalmente non piace proprio e, anzi, irrita abbastanza.
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