E’ giusto ed è comprensibile che anche la Sardegna abbia trovato la sua formazione vicina allo stoner. Se pensiamo alle tante zone presenti sull’isola ricche di una bellezza aspra, selvaggia, incontaminata ed a tratti quasi desertica, potremmo considerare questa regione la nostra piccola risposta ai meravigliosi scenari Americani che tanto hanno ispirato la rinascita dell’heavy rock dalla metà dei ’90 in avanti.
Magari il quartetto Sardo che si cela dietro questo lungo moniker non sarà stato motivato da pensieri così romantici quando si è ritrovato in sala di registrazione, più facile sia stato corroborato da fiumi di birra e sostanze proibite, ma è bello immaginarli pervasi dall’abbagliante spirito del desert-rock.
Comunque sia andata, l’illuminato di turno è Fabrizio Monni, batterista dei Clench, il quale ha reclutato un compare della sua band ed un paio di amici degli Inkarakùa, freschi di debutto per la stessa piccola label di Cagliari, allo scopo di divertirsi a scambiarsi gli strumenti e a tirare fuori un po’ di musica acida senza tanti problemi.
L’esperimento ha prodotto sette discreti brani stoner che hanno il pregio di svariare abbastanza tra gli schemi del genere. Soluzioni semplici ma positivamente rocciose e volutamente primitive, e se chiudiamo un occhio sui limiti di originalità ed esecuzione l’album trasmette vibrazioni giuste.
In alcuni frangenti, vedi la torbida e sfiancante “Black humma” ed il tiro spesso ed urlato di “Burnt dusty engine”, mi sono venuti in mente i Duster 69 ed il loro heavy stoner ruvido ed abrasivo, mentre la bella rilassatezza narcotica finale di “Tropic” richiama parecchio le cose dei Natas. Non ci sono intuizioni o picchi stratosferici, anche perché l’album è stato composto di getto con l’idea della jam session, ma si fa ascoltare con piacere tra ipnotici omaggi nemmeno tanto velati ai padri del settore, vedi “Toyeca” profondamente kyussiana, e buoni rawk’n’roll marci e tirati come “N.Y.54”.
Un progetto divertente e scorrevole, che dimostra diverse cose: l’esistenza e la vivacità di una scena stoner nazionale competitiva; la possibilità di realizzare interessanti lavori di settore anche se normalmente si opera in altre scene musicali, a patto di essere forniti della necessaria apertura mentale; la lodevole volontà dei musicisti Sardi di non essere emarginati per anacronistiche motivazioni geografiche. Ben venga dunque un etichetta che si occupi di portare alla luce ciò che c’è di valido sull’isola, e ben vengano i Black Hole of Hulejra che in futuro lavorando con lo stesso impeto ma più ragionamento potranno darci soddisfazioni ancora maggiori.
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