Prosegue con convinzione il percorso di “riabilitazione” dei
Ten, prima in grado di guardare dritto negli occhi i grandi protagonisti dell’
hard rock inglese degli anni settanta e ottanta e poi costretti ad abbassare lo sguardo a causa di lavori francamente troppo verbosi e scontati per onorare efficacemente il credito conquistato tra il pubblico sempre piuttosto attento ed esigente dei
melodic-rockers.
Già il precedente “Stormwarning” aveva fornito importanti segni di ripresa e sulla stessa lunghezza d’onda si pone complessivamente anche il nuovo “Heresy & creed”, un ulteriore esempio di
regale rock duro pregno di emanazioni melodiche e passionalità che, a sua volta, si colloca dal punto di vista stilistico sulla scia degli eccellenti “Spellbound” e “Babylon”, pur senza eguagliarne completamente l’efficacia.
Il problema principale di questo Cd è che accanto a brani “oggettivamente” di categoria superiore, se ne trovano (alcuni) altri eccessivamente di maniera o parecchio “fuori fuoco” e questo, a differenza di un albo che mantiene uno standard
medio-alto per tutta la sua durata, finisce verosimilmente per indispettire particolarmente l’ascoltatore, rammaricato oltremodo da un assemblaggio forse realizzato senza la necessaria accuratezza.
La “nuova”
line-up (tra defezioni e rientri), pilotata dal solito campione della fonazione modulata Gary Hughes, si dimostra solida e affiatata e anche l’ispirazione compositiva può tranquillamente definirsi di ottimo livello, soprattutto se analizziamo l’avvio del
platter, gratificato da una terna di canzoni realmente appassionanti: introdotta dal suggestivo strumentale “The gates of Jerusalem”, “Arabian knights” vi condurrà in un magnetico scenario dalla preziosa cornice epica, in cui aleggiano visioni di Rainbow, Magnum e Malmsteen, mentre “Gunrunning” vi stregherà con le peculiarità di un
hard coriaceo dal
refrain contagioso e “The lights go down” metterà a dura prova il vostro equilibrio
cardio-uditivo puntando al cuore dei sensi con una melodia strepitosa e con un’atmosfera di enorme impatto emotivo.
L’ardore “celtico” di “Raven’s eye”, pur scontando un minimo di formalismo, è ancora da annoverare tra le eccellenze del dischetto, laddove con “Right now”, un brano dall’
appeal appena sufficiente, esordisce la versione contingente dei Ten meno efficiente e focalizzata, che prosegue la sua opera a ridosso della soglia di tollerabilità nella stravagante disinvoltura corale di “Game of hearts” e purtroppo riesce a fare “danni” pure peggiori con “The priestess”, un indecifrabile numero
funk-eggiante troppo prevedibile per non spiccare negativamente.
Il capitolo
ballads è invece onorato nella maniera migliore con “The last time”, “Another rainy day” (veramente di pregio …) e “The riddle” e pure il “settore energia” riesce a fregiarsi di due ulteriori motivi di vanto, rappresentati dalla linea armonica infettiva di “Insatiable” e dalla
verve vagamente Whitesnake-
iana di “Unbelievable”, a testimonianza che, nonostante taluni significativi “cali di tensione”, i nostri possono di nuovo riprendere ad aspirare ad un ruolo di spicco nella scena melodica internazionale.
Stima e voto alto confermati, dunque, da considerare anche come una forma d’
incoraggiamento a proseguire su questa strada, eliminando ridondanze e piccole sfocature, e indirizzando i propri sforzi all’apertura di un nuovo ciclo di opere
totalmente inattaccabili, proprio come quelle che hanno caratterizzato il glorioso passato dei Ten.