Quanto è difficile essere obiettivi, soprattutto quando si deve trattare il frutto del lavoro dei propri favoriti e si cerca di fornire un “servizio” in qualche modo utile e distaccato.
Il rischio è di essere tacciati di eccessiva benevolenza o, d’altro canto, per evitare che a parlare sia il “fan”, d’incorrere in forme di critica eccessivamente “scientifiche”, pesando con il
bilancino ogni singolo aspetto di un prodotto discografico.
Se poi l’oggetto del contendere è l’
AOR, la questione
forse si complica addirittura ulteriormente, dacché il genere, in fase di rilancio negli ultimi anni, ha sempre potuto contare anche nei periodi “bui” su un seguito affezionato, preparato ed esigente, sempre pronto a “fare le pulci” ad ogni nuova uscita, in particolare a quelle intestate ai veterani del settore.
Questa introduzione non vuole essere un modo per “scaricare” le responsabilità delle parole che state per leggere, ma semplicemente per
avvisare il lettore che il nuovo disco di
Jimi Jamison è un piccolo
capolavoro del
rock adulto, e che considero tale affermazione tanto perentoria quanto ponderata, dopo aver analizzato la faccenda sia con gli occhi del “cuore” e sia con quelli del “cervello”.
Dirò di più, la confermata ed estesa (aveva già contribuito in parte all’acclamato Kimball / Jamison) collaborazione con Erik Mårtensson (Eclipse, W.E.T., …), novello
Re Mida dell’universo melodico, ha conferito allo stile inconfondibile del mitico Jimi una luce “nuova”, una vitalità espressiva intensa e volubile, un pizzico di benefica “modernità” che l’immenso Peterik non era stato in grado (o meglio, non aveva voluto, …) fornire al pur strepitoso “Crossroads moment”.
E’ facile immaginare, dopo questa
impegnativa dichiarazione, una ridda di sollevazioni popolari, pronte ad evocare i termini “dell’eresia” e tuttavia consiglio anche a questi signori e alle loro plausibili censure di ascoltare con attenzione, e ripetutamente, “Never too late”: sono quasi certo che alla fine non potranno che apprezzare questa versione di Mr. Jamison, leggermente meno “rassicurante”, forse, eppure straordinariamente dinamica e coinvolgente.
Nulla di “snaturante”, sia ben chiaro, soltanto una fusione equilibrata tra solida tradizione e intraprendenza contemporanea, per la quale la logica definizione Survivor
meets Eclipse appare tanto
scontata quanto
efficace.
Come si conviene a un
album gratificato da un appellativo così altisonante, la sua
track-list è una sequenza pressoché ininterrotta di momenti esaltanti, che iniziano con l’ardore contagioso di “Everybody's got a broken heart“ (con un delizioso tocco di Journey …) e terminano con un’irresistibile “Walk on (wildest dreams)”, un brano dal tipico andamento vibrante e dal
refrain enfatico, in cui si percepisce nettamente la prodigiosa “mano” di un inesauribile Mårtensson.
In mezzo a siffatti gioiellini, le citazioni si sprecano e sono necessarie, innanzi tutto, per l’ariosa e grintosa melodia di “The great unknown”, per l’esuberante grazia sentimentale (una “roba” in cui Jamison è un autentico fuoriclasse) della
title-track e per le perle
assolute "I can't turn back”, "Bullet in the gun”, “Street survivor” e “Heaven call your name”, quattro brani che, in maniera differente, (le prime due sono classici dell’
FM rock da brividi, la terza è un raffinato ed avvincente numero
hard, dalla struttura armonica trascinante, mentre l’ultima è
semplicemente una struggente opera d'arte in note, dall’intensità emotiva veramente toccante …) raccontano della sconfinata classe di un campione vero della scena melodica internazionale.
Impossibile, però, non nominare, altresì, la virile ballata notturna “The air I breath”, il bagliore “tecnologico” (in
eighties style …) e il coro tumido di "Not tonight” e la ruggente “Calling the game”, finendo per elogiare, oltre all’ugola sempre impeccabile del titolare del disco, anche il resto dei musicisti coinvolti, con una menzione speciale per Jonas Oijvall, autore, con il suo glorioso Hammond, d’interventi sempre preziosi e affascinanti.
Prima “Bleed and scream”, poi “Immortal” ed oggi questo “Never too late”, che si pone, in qualche modo, stilisticamente tra i due appassionanti “precedenti” … il “fine anno” della Frontiers è decisamente da
standing ovation e, credetemi, non c’è l’ombra d’indulgenza (nemmeno “nazionalistica” …) in tale constatazione.