Fondati nel 1998, i bostoniani
Ichabod hanno evoluto nel tempo il loro stile, passando da uno sludge con venature psichedeliche ad un pesante heavy rock munito di feeling southern. Lo evidenzia il presente quinto album, un concentrato di canzoni dure e massicce ma abbellite da richiami tanto settantiani quanto modernisti.
Basti citare l’opener “Huckleberry”, che dopo la poderosa prima parte si apre ad un finale agro-acustico, oppure “Baba yaga” dove emergono sottili vibrazioni acide, o ancora la complessa “Epiphany” inizialmente una ballata sudista e poi una sfuriata con vocals quasi hardcore. Questo per sottolineare la capacità del quintetto americano di sfruttare bene vari aspetti del rock più roccioso, come si sta spesso verificando in questi ultimi anni.
Possiamo sicuramente inserire gli Ichabod nella stessa area di nomi come Down e Corrosion of Conformity, ma anche di formazioni meno note e più viscerali come Roadsaw, Brand New Sin, King Giant, All Hail the Yeti ed altre, che mantengono quel suono sporco e granuloso distintivo dei veri “rock’n’roll outlaws” a stelle e strisce.
Se ancora non bastasse, ascoltate il perfetto crescendo in “108” dalla incantevole dolcezza iniziale al terribile gorgo space-rock che erutta nel resto del brano, forse il migliore del lavoro. Ancora da segnalare la conclusiva “Return of the hag”, un cameo progressivo giocato sugli svolazzi di un flauto alla Ian Anderson, che pur essendo episodio estemporaneo testimonia l’ampio orizzonte musicale di questi veterani.
Se vi piace il “dirty” hard rock delle nuove generazioni statunitensi, miscela di tradizione e attualità, provate la varietà di soluzioni degli Ichabod.
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