Il mio spirito “collezionistico” e la mia atavica brama di “indagatore” tra gli impolverati forzieri del
rock mi fanno adorare il recupero postumo di misconosciute realtà del passato, mentre la diffidenza per operazioni di “riscoperta” ormai sempre più frequenti e spesso altrettanto superficiali fanno da contraltare a tanto istintivo entusiasmo.
A mettere d’accordo le due antitetiche tendenze, ci pensa, come di consueto, la qualità artistica del prodotto e nel caso specifico posso tranquillamente affermare che la rivalutazione dei
Big Daisy da parte della High Roller Records è un’iniziativa degna e meritoria, capace di mettere in luce i pregi di una formazione sicuramente sottovalutata, artefice di un solo singolo nel lontano 1980 (su Ellie Jay Records), qui recuperato assieme alla storia “dimostrativa” della band, manifestata anche sotto la denominazione di Jury.
Associato alla variegata e palpitante corrente della
NWOBHM, il
team di Lichfield capitanato da Mervyn Spence, ostenta, in realtà, un approccio musicale ben poco affine alle celebrità del genere, proponendo una sorta di primordiale
hard progressivo che, abbeverandosi alla fonte di Led Zeppelin, Rush e Triumph, aderiva all’approccio musicale dei sodali Shiva e Limelight (ma potremmo citare anche i primissimi Def Leppard …), altri “anomali” interpreti del settore, anch’essi ben lontani da successi planetari, ma comunque più fortunati dei protagonisti di questa disamina.
Eppure "Fever" e "Footprints on the water”, i brani di quel raro 7”, avevano i mezzi per far trasparire nettamente il talento dei Big Daisy, con la voce vibrante di Spence (alla Geddy Lee …) a fungere da ammaliante portante sonica di strutture armoniche fascinose e suggestive.
La grinta e l’articolata melodia chitarristica di “Day of the damned”, il clima drammatico di “Look to the east”, le atmosfere
epic-blues di “Gypsy queen”, la spigliatezza
naif di “Killing me”, l’intensità in progressione di “UFO” e le palesi scorie Zeppelin-
iane di “Just a child”, confermano le qualità, magari ancora un po’ “rustiche” (ricordiamo, inoltre, che si tratta, seppur rimaneggiati, di
demo-tapes incisi in capannoni agricoli adibiti a sala prove, con alcune sessioni vocali registrate addirittura nel bagno dell’appartamento di Merv!) e tuttavia assai rilevanti di un gruppo che avrebbe meritato una
chance importante che gli consentisse di svilupparle adeguatamente.
Gli ultimi due brani dell’antologia, alimentati da un suono leggermente più “pragmatico”, risalgono all’esperienza
Jury (con il chitarrista Tim Rowe in
line-up al posto di Roger Fox) e anche se “Don't go” finì sulla
compilation della Ebony "Metallic storm" (in compagnia dei Mercyful Fate …), non ci fu un futuro nemmeno per questa seconda incarnazione del terzetto, che si sciolse definitivamente quando Spence decise di continuare la sua avventura artistica con Trapeze, Wishbone Ash e Phenomena.
All’epoca passarono inosservati, forse per un’eleganza stilistica incompresa in un periodo di maggiore predisposizione alle urgenze metalliche, mentre oggi potrebbero beneficiare di questa rinnovata voglia di “vintage” (il disco è licenziato anche in una “classica” versione in vinile …) ad “ampio spettro”, per veder porre un (parziale e tardivo) rimedio ad una delle tante, più o meno grandi, “ingiustizie” di cui è costellato il mondo della musica.