Il
monicker della band non è particolarmente da
defender, tuttavia sono certo che una volta superata la piccola “anomalia”, in questo disco d’esordio eponimo dei
Firebrand Super Rock tutti i
metalhead “all’ascolto” troveranno di che nutrire la propria, notoriamente vorace,
concupiscenza musicale.
Beh, in realtà, c’è un altro “scoglio” da superare, se così vogliamo chiamarlo … accettare che questo genere tradizionalmente piuttosto
sciovinista, sia interpretato da una cantante (per molte ragioni, che non staremo ad analizzare nello specifico,
heavy metal e universo femminile non hanno storicamente mai goduto di una particolare affinità, se escludiamo dall’analisi le derivazioni
gothic,
alternative e
hard melodico, per qualcuno nemmeno accostabili alla succitata catalogazione stilistica …), ma la speranza è davvero che almeno nella sconfitta di questo atavico pregiudizio il “terzo millennio” abbia portato importanti segnali positivi (qualche avvisaglia c’è … Brittany Paige di Kobra and the Lotus, Christine Davis dei Christian Mistress e London Wilde dei WildeStarr, per esempio).
Laura Donnelly è veramente una
vocalist eccellente, capace di modulare la sua voce con personalità, sfruttando abilmente le tonalità più basse e mantenendo un timbro “virile” pur senza mortificare la propria femminilità, il tutto al servizio di una forma espressiva che attinge a piene mani dalla
NWOBHM di Judas Priest e (primi) Iron Maiden, aggiunge nebulizzazioni di Mercyful Fate e impregna il distillato così ottenuto dell’attitudine
groovy ed oscura di Down e BLS.
Il risultato è francamente piuttosto appassionante, le linee melodiche sono coinvolgenti, il “tiro” è vigoroso e la chitarra di Jamie Gilchrist è una continua macchina da
riff, in grado di scavare nel profondo i sensi degli appassionati.
Detto di
guitar-hero e
front-woman, non sarebbe giusto trascurare la sezione ritmica, precisa e “corazzata” come da miglior copione di settore, per una coesione complessiva inattaccabile, che inizia a manifestarsi in maniera lampante fin dall’
opener “River of the dead”, un macigno dalle screziature caliginose di enorme suggestione.
La vertiginosa “Into the black” potenzia il denso motore metallico del gruppo con un
turbo-thrash, “Wheel of pain” riduce i “giri” compensando con una combustione armonica tanto “familiare” quanto trascinante, mentre con “Iron void” i ritmi rallentano e s’incupiscono, raggiungendo i gorghi del
doom e conservando vitalità e dinamismo espressivo.
“The unborn” e “Cleansed by fire” (intriganti i profumi mediorientali …) rivelano una notevole enfasi epica, le cadenze melodiche malsane di “Hells mouth” sanno di rituali magici e di stregoneria ed analoga impressione la reca, dopo il suggestivo strumentale denominato “Beneath the nameless city”, la splendida “Born to die”, in cui un
flavour tipicamente
settantiano prende visibilmente il sopravvento.
Chi avesse bisogno di un’ulteriore dose di
ossianica forza d’urto potrà, infine, essere gratificato dall’impatto di “Falling down”, ma è tutto l’album a garantire ampie e generose soddisfazioni
cardio-uditive, in virtù di un’impronta artistica pregna di
feeling e d’intensità, “classica” eppure non fastidiosamente “datata” o eccessivamente abulica.
Se vi piace il genere, ricordatevi il nome di questi scozzesi (vista la sua “particolarità” non sarà difficile …), per quanto mi riguarda autori di un pregevole debutto.