Copertina 8

Info

Anno di uscita:2004
Durata:69 min.
Etichetta:Relapse
Distribuzione:Self

Tracklist

  1. BURN
  2. NO RIVER TO TAKE ME HOME
  3. THE EYE OF EVERY STORM
  4. LEFT TO WANDER
  5. SHELTER
  6. A SEASON IN THE SKY
  7. BRIDGES
  8. I CAN SEE YOU

Line up

  • Scott Kelly: vocals, guitar
  • Steve Von Till: guitar, vocals
  • Dave Edwardson: bass
  • Noah Landis: keyboards, samples, sound manipulations
  • Jason Roeder: drums

Voto medio utenti

Ci sono validi motivi per considerare i Neurosis uno dei massimi simboli di quella trasversalità che da più parti si vuole obbiettivo principe della musica heavy contemporanea. Non più filoni perfettamente delineati e chiusi a riccio, refrattari a qualsiasi stimolo esterno, bensì un coagulo di stili, influenze, correnti di pensiero, che porti all'annullamento di ogni tipo di etichetta e definizione in favore di un suono globale padrone di espandersi ed evolversi in qualsivoglia direzione.
Abbattendo molte barriere tra i generi, i Neurosis sono riusciti nell'impresa di farsi apprezzare tanto dai metallari quanto dai post-rockers e finanche dagli stoners, tutti quanti prostrati ad elevarli a band di culto. Soprattutto fin dai loro esordi hanno assunto con sicurezza il ruolo di formazione impegnativa, aliena e profonda, distaccata e disinteressata a qualsiasi forma di facile fruizione così immersa nelle proprie cupe visioni e nelle esasperate sperimentazioni.
Il loro discorso personale ed autonomo prosegue in quest'ultimo lavoro, opera integralmente oscura che irradia spaventose emissioni d'angoscia e depressione grazie ad una serie di mini-suites psichedeliche, che vedo come logica conseguenza in ottica fortemente metal delle intuizioni di Hawkwind, Pink Floyd e del movimento kraut-rock.
Ciascuno di questi lunghi brani è un ambiente privo di luce in continua evoluzione, squassanti lampi di heavy monolitico si trasformano repentinamente in sfiancanti immobilismi chill-out mortiferi, per mutare ancora in apocalittici mantra ultra-doom che estremizzano lentezze tombali. Per farla più semplice canzoni prive di punti di riferimento, tormentate, libere dagli schemi giocosi e ripetitivi dove puoi prevedere con largo anticipo quando arriverà il ritornello o quanto durerà l'assolo, il passaggio del suono pesante alla cerebralità assoluta, all'età adulta.
Qui si percepisce la certosina ricerca della vibrazione "giusta", l'accostamento perfetto di strumenti classicamente heavy con elementi estranei, siano essi acustici e romantici o parto di tecnologie moderne, l'ingegnosa lucida follia che genera un percorso tortuoso e spiazzante fatto di contrasti abissali tra metal estremo e narcolessia lisergica, vortici ipnotici ed un costante pathos melodico, amalgama di esplosiva drammaticità e sussurri agonizzanti.
Non è agevole descrivere e dare un giudizio compiuto ad un album che vive di atmosfere ed emozioni, certo è che chi vi si accosta superficialmente lo sentirà triste, tetro, minimale, troppo lento e rarefatto, in sostanza eccessivamente tedioso.
Un impegno più attento porta invece a scoprire una fenomenale espressività nelle litanie agghiaccianti della title-track, a tratti di una mestizia sconfinata, l'energia caotica di "Burn", la declamazione iniziale di "A season in the sky", una poesia recitata nel silenzio che si trasforma in un picco di tensione orrorifica dall'intensità dolorosa. Cruda violenza, pazzia, abbandono, sofferenza, senza mai ricorrere al tambureggiare tellurico e all'urlo belluino, sfidando la banalità con una calma glaciale e solenne ancor più minacciosa.
L'accostamento che mi viene facile anche per vicinanza temporale, è quello con i nostri Ufomammut. Entrambi al di fuori della forma-canzone, creatori di strutture complicate e spaziali, liberi di dar sfogo alle proprie allucinazioni senza porsi limiti e ricchi d'introspezione psichedelica, entrambi legati al simbolo della spirale, del vortice, che ritroviamo simile nelle loro copertine. Gli Italiani possiedono una struttura forse più compatta e fisica, con vocals al vetriolo e passaggi molto spesso aggressivi e deraglianti, mentre i Neurosis spingono maggiormente verso la dilatazione rarefatta, sui contrasti tra i picchi granitici e le lunghe ossessive fasi ambientali, ma sono identici nella necessità di concedersi a loro senza la minima distrazione.
Come qualcuno ha creato la categoria delle formazioni "da birreria", per indicare gruppi usa-e-getta di poco spessore, i Neurosis possono rientrare nella ristretta cerchia di quelli "da cuffie e poltrona", vista l'inutilità di usare un lavoro complesso come "The eye of every storm" in qualità di sottofondo o per veloci ascolti epidermici. Qui siamo ai probabili limiti di un heavy onnivoro che deve la sua genesi tanto ai Black Sabbath quanto ai Tangerine Dream, un colosso di coinvolgimento mentale che prende le distanze dal trito heavy cappa e spada.
Dischi come questo segnano probabilmente la direzione futura del rock pesante, confini sempre più indefiniti e suono malato e psicotico, e se oggi non possiamo ancora prevedere l'impatto di queste idee nei decenni a venire e le sentiamo ostiche e nebulose, è comunque doveroso premiare quei pochi che si sforzano di esplorare strade nuove e di tracciare faticosamente il sentiero per gli altri.

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