Una spiccata tendenza al
revival e una notevole predisposizione alla (ri)valorizzazione di misconosciute formazioni del passato sono due aspetti assai ricorrenti dell’attuale
business discografico, e se qualche volta tali atteggiamenti sono inevitabilmente oggetto di una certa “circospezione”, nel caso specifico non si può che essere enormemente grati a questa prepotente voglia di “classico”, anche se non particolarmente “audace”.
I
Place Called Rage, sorta di
supergruppo formato da Al Pitrelli (Alice Cooper, Asia, Widowmaker, Savatage, …), Tommy Farese (Trans Siberian Orchestra), Danny Miranda (Blue Oyster Cult) e Chuck Bonfante (Joe Lynn Turner, Saraya, Drive, She Said) e il loro disco eponimo licenziato nel lontano 1995, finora erano stati, infatti, una “merce preziosa” appannaggio esclusivo degli apparati
cardio-uditivi dei
rockofili giapponesi, mentre ora ci pensa l’attenta Escape Music a rendere capillare e meritata giustizia a questo
gioiellino di viscerale
hard-rock blues, nella speranza che i tempi attuali apparentemente piuttosto ricettivi nei confronti di questi immarcescibili suoni, possano essere favorevoli alla sua diffusione.
All’autorevole lista dei membri della
line-up, manca, poi, ed è utile per comprendere ancora meglio la portata dell’opera, l’appendice rappresentata dalla presenza del divino Mark Mangold (Valhalla, American Tears, Touch, Drive She Said, …), molto più che un semplice collaboratore del gruppo, capace di concedere lo sfolgorio della sua penna e dei suoi tasti d’avorio anche a questo particolare contesto artistico, sviluppato, non a caso, due anni dopo con i Flesh & Blood (in compagnia degli stessi Pitrelli e Bonfante e con il contributo di Mitch DeStefano e dell’eccelso Danny Vaughn) di “Blues for daze” in cui, a chiusura del cerchio, verranno proprio recuperati due brani ("I know where you been" e "Jenny doesn't live here anymore") di questo “Place called rage”.
Insomma, se vi piacciono Stones, Zeppelin Humble Pie, Aerosmith e Bad Company, Cinderella, Great White e Black Crowes oppure ancora formazioni leggermente meno acclamate (ma altrettanto interessanti …) come Little Caesar, Cry Of Love, Tattoo Rodeo e Dirty White Boy, procurarvi quanto prima una copia di questo
killer-album, da troppo tempo assente dalla vostra preziosa collezione di dischi, sarà una scelta tanto intelligente quanto tassativa.
Davvero nulla da scartare in sessantadue minuti di bruciante, intrigante e ruvida materia musicale pilotata in modo superbo dal timbro vocale pastosamente
raunchy di Tommy Farese (una specie d’ibridazione fra Paul Shortino, Steven Tyler e Ron Young) e dalla chitarra sensibile di Pitrelli, in grado di distillare emozioni radicate e intense senza ricorrere a “facili” istrionismi.
Che si tratti di puntare sulla fisicità (il torrido
anthem "I know where you been”, la potente “One child” – da far ascoltare subito ai
fans di BCC e Chickenfoot – la grintosa
cover version di “Thunderbox” degli Humble Pie e “We’re not coming home” tra
Dirigibili londinesi e
Bombardieri bostoniani), di essere avvolgenti e sensuali (l’eclettica
title-track, l’ardore
funky di “Trapped”, il
mid elettro-acustico“Someday”), disinvolti (la
sudista “Can’t find my way home”, il
rhythm n’ blues n’ roll “Chained to maniac”, con tanto di vago ammiccamento finale alla leggendaria “Chain of fools”) o d’illustrare melodie virilmente romantiche ("Take it lying down”, la suggestiva “Jenny doesn’t live here anymore”), i nostri ostentano una vocazione schiacciante la quale, affiancata ad una più
prevedibile irreprensibilità tecnica, rende l’intera operazione di “recupero” una faccenda assolutamente encomiabile.
E nel caso qualcuno avesse dei dubbi residui in merito all’attendibilità della succitata affermazione, sono certo che "What these eyes have seen” li incenerirà all’istante … difficile trovare, pure nella generosa offerta del terzo millennio, una celebrazione dell’incandescente arte Purple-
iana più credibile, avvincente e convincente.
“Place called rage” è un degnissimo esponente del “rinascimento” delle radici del
rock, e qualora i suoi autori volessero tornare a suonare assieme, onorando così un altro dei
trend della scena contemporanea, non resterà che accogliere senza sforzo alcuno anche questa “omologata” decisione …