Altro bel colpo per la Jolly Roger Records, l’ennesimo.
Difficile definire diversamente la ristampa arricchita del primo disco di
Heavy Metal italiano, rimasto fino ad oggi una sorta di “figura mitologica” che in pochi avevano avuto la possibilità di “affrontare” in prima persona.
Ancor prima di Vanadium e Vanexa erano stati proprio i napoletani (un colpo “ferale” per tutti i
metalofili dalle simpatie “padane” …)
Strike, a trasferire su acetato nel lontano 1981 tutta la passione per quei nascenti suoni viscerali e “rivoluzionari” che dalla “perfida Albione” si propagavano con la forza di una singolare forma di benefica epidemia.
Capitanata dai fratelli Dario “Daryl” Ingrosso (voce/basso) e Paolo “Paul” Ingrosso (chitarra – scomparso nel 2002 … R.I.P.) e con il supporto dei due
yankee Jimbo Moshier alla chitarra e Jimmy Sharp alla batteria, la
band dopo un periodo di gavetta consumato nei circuiti musicali delle basi NATO, raggiunge il contratto discografico con la Skyzo Records (distribzione Fonit-Cetra) e licenzia l’ellepi “Strike” (e il relativo 45 giri “Short cut to hell / Go your way”) dalle sonorità affini a quella NWOBHM in cui la componente squisitamente
hard-rock aveva ancora un “peso” piuttosto significativo.
Cambi di
line-up (con il ritorno in patria dei due musicisti americani) e le solite difficoltà “oggettive” tipiche del
Belpaese, limitano le possibilità d’ascesa dei partenopei che, nonostante tutto, con l’ingresso del chitarrista Lucio Mazzaro e del batterista Joe Savarese, riescono a pubblicare un
demo di tre pezzi orientando le loro propensioni espressive verso un heavy più “commerciale”, il quale ottiene buoni riscontri e consente al gruppo di proseguire in una cospicua attività
live (culminata con un’estemporanea
jam-session con i Saxon, in una birreria di Fuorigrotta), contribuendo, di fatto, alla creazione della “scena” locale, fino a quel momento, in pratica, inesistente. Nonostante i vari apprezzamenti, come spesso è accaduto a questa generazione di “pionieri del metallo italico”, non ci furono gli sbocchi sperati e meritati, e se oggi volete farvi un’idea precisa di quali fossero le potenzialità degli Strike, “Back in flames” è a vostra completa disposizione, con la forza della sferragliante “Short cut to hell”, le cadenze incombenti e sinuose di “Head out”, con gli inni “I want to rock” e “Heavy metal army”, con l’ardore sanguigno di “Hot wheels” e quello leggermente più “accondiscendente” di “Go your way” (vagamente Priest-
iana) e della
bluesy “We’ve got the music”, o ancora con il “tiro” di “Fire’s goin’ higher” e “Running the race”, tutta
roba in grado di mettere d’accordo i sostenitori di AC/DC e quelli dei Saxon, un po’ alla stregua di certi validi interpreti “minori” del settore come Chateaux, Picture, More e Bodine, se non addirittura finendo talvolta per ricordare i Def Leppard “primordiali”.
Il lavoro continua con il contenuto della succitata prova “dimostrativa”, l’ultima testimonianza del gruppo sotto questa denominazione, e se “Flames” ostenta un solido legame con il passato, tocca a “Let me go” e, soprattutto, a “C’mon let’s rock” illustrare il “nuovo” corso degli Strike, all’insegna di un approccio maggiormente “ruffiano” e
anthemico, prodigo di
sfiziose promesse, che non ci fu l’opportunità di vedere mantenute.
La breve esibizione di chitarra classica denominata “Fly” chiude un
excursus musicale caratterizzato da tante piccole ineluttabili ingenuità e catturato con le peculiarità di un suono naturalmente “datato” (ma quante sono le formazioni attuali che cercano di replicarlo, per accentuare le loro velleità “vintage” …) e tuttavia affermare che questo è materiale ad uso esclusivo dei “nostalgici” equivale ad assegnare unicamente a tale “categoria sociale” lo studio dell’Impero Romano, del Risorgimento o della Resistenza …
iperboli “giornalistiche” a parte, questa è comunque “storia” e come tale va approfondita, soppesata e appresa, scoprendo, subito dopo, quanto può essere ancora affascinante e coinvolgente.