In anni in cui il progressive metal cominciava a mostrare I primi segni di cedimento in quanto sembrava che l’unica strada percorribile e commercialmente di successo fosse quella degli amati/odiati Dream Theater, una band già attiva da quasi dieci anni viene alla ribalta con un album destinato, nel suo piccolo, a fare storia. I
Porcupine Tree, o per meglio dire Steven Wilson coadiuvato da Gavin Harrison alle pelli, Richard Barbieri alle tastiere e Colin Edwin al basso (tutta gente dal recente passato a dir poco glorioso) propongono un nuovo modo di fare progressive rock (su alcuni portali specializzati ho trovato la dicitura “heavy prog”, che secondo me calza alla perfezione), figlio dell’approccio meno tecnico e più spacey dei Pink Floyd, di cui il mastermind è fan accanito, e delle nuove tendenze di contaminazione “heavy”, appunto, contemporanee (l’anno precedente Mr. Wilson presenziava alla corte di Michael Akerfeldt degli Opeth per co-produrre quel gioiellino di “Blackwater Park”). Brani ottimamente scritti, Paul Northfield alla regia, e il gioco è fatto: da “Blackest Eyes”, quasi imprescindibile nei concerti della band, a “The Sound of Muzak”, che personalmente metterei senza troppi dubbi nella “Top 10” progressiva degli anni Duemila, passando per le più psichedeliche e sognanti “Gravity Eyelids” e “Collapse The Light Into Earth”, gli inglesi offrono una tavolozza di possibilità sonore fatte più di ricerca e sperimentazione in studio che di complessi e “arzigogolati” passaggi strumentali. I soundscapes di Barbieri (immaginate Rudess e trasformatelo nel suo esatto opposto), il drumming di Harrison (che in poche parole si potrebbe definire “un batterista jazz che suona a metronomo”, ricco di sfumature e dinamiche al contrario dell’invadente Portnoy) e la voce soffusa e volutamente “piatta” di Wilson (anche qui, LaBrie in una veste simile non sarebbe immaginabile) fanno di questo disco un tassello imprescindibile per comprendere l’evoluzione dell’intero genere.
L’instancabile Steven Wilson, dopo alcuni altri dischi a nome Porcupine Tree ma non solo, si concentrerà su una brillante e tuttora prolifica carriera solista, diventando inoltre uno stimatissimo produttore incaricato, tra le altre cose, di restaurare le discografie progressive più celebri dei Seventies (King Crimson, Jethro Tull, ELP, per citare i nomi più noti). Un punto di non ritorno per decine di altri dischi e gruppi a venire.
A cura di Gabriele Marangoni
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