Questo terzo album, sarà la definitiva affermazione dei
Graveyard? Sì, perlomeno per quanto riguarda il “giro” del retrò-rock o new/old o come volete voi. Per il grande successo commerciale, temo ci sia poco da fare.
Infatti il quartetto svedese possiede un sound ancora più vintage di altri “underground heroes” tipo Witchcraft, Rival Sons, The Sword, Horisont o perfino Black Spiders, perciò penso sia difficile che l’ottuso mercato musicale possa premiare una band che sembra la versione attuale, neppure tanto corretta, di una Hard rock blues band degli anni ’70.
Ma noi che amiamo le sonorità “polverose” e le ritmiche “avvolgenti”, possiamo goderci pienamente un lavoro ben riuscito come “Lights out”.
Rispetto al precedente “Hisingen blues” si nota un pizzico di spontaneità in meno, ma una fattura ben più rifinita e positivamente “studiata” in ogni dettaglio. Cosa normale per un terzo capitolo, che di solito testimonia la completa maturazione di un gruppo.
Sin dalla rocciosa ed aggressiva “An industry of murder” appare evidente di come sia stata curata ogni nota, ogni assolo ed in particolare le linee vocali, con Joakim Nilsson che se la cava egregiamente anche nelle parti morbide e malinconiche. Tutti i brani possiedono il loro preciso carattere: vuoi l’atmosfera struggente in “Slow motion contdown” nella vena dei Witchcraft, la durezza di “The suits, the law & the uniforms” o “Goliath”, oppure lo “spleen” nordico che affiora nella morbidezza di “Endless night” e “Fool in the end”, quest’ultima valorizzata dal ficcante ritornello.
Le liriche trovano maggiore incidenza che in passato, alimentando la critica verso la società odierna prima solo abbozzata, ed il contributo tecnico di ciascun musicista brilla per precisione ed efficacia.
Un terzo capitolo che conferma quanto di buono è stato fatto in precedenza dai Graveyard, smussando qualche asperità per un profilo appena più mainstream ma senza perdere quell’atmosfera un po’ hippie ed il sapore gustoso della bella musica di una volta.
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