Esordio su lunga distanza per gli
Arbogast, trio di Chicago, che punta sul puro assalto sonoro. Scarni, essenziali, deraglianti, ma anche capaci di costruire brani ricchi di cambi di riff e tempi, gli americani scaricano la loro rabbiosa energia senza concedersi alcuna pausa, offrendo la sensazione di ascoltare più un disco live che da studio. Ma non è faccenda di sonorità, grezze ma nitide, quanto di atteggiamento mentale. Tre tipi incazzati, che sentono la necessità di farcelo capire bene.
Il loro stile ha qualcosa del vecchio crossover metal/punk, roba tipo Verbal Abuse, D.R.I., Cryptic Slaughter, mischiato ad influenze più recenti, vedi -(16)-, Black Tusk, American Heritage, ecc. Una violenza mai isterica, patologica, bensì la reazione al disagio sociale, alla disillusione, alla rovina del grande sogno americano, come indicano i temi delle liriche.
Il chitarrista Mike Scheid ingolfa gli spazi di giri sferraglianti ma per niente statici; Saron Roemig spreme basso ed ugola nel modo più rumoroso possibile, mentre il drummer Mike Rataj si mostra positivamente agile ed abile nelle variazioni improvvise. Un disco non per palati fini, ma buono per chi bazzica hardcore, post-core, sludge ed altre nicchie di pesantezza.
Unico appunto, al momento lo stile degli Arbogast sembra perfino troppo asciutto ed essenziale, come un blocco di granito grezzo. In futuro, sarebbe utile alla band statunitense allargare un poco i propri schemi, per non cadere in una furia ostile ma fine a sé stessa. Comunque, l’impressione finale è quella di una formazione promettente.
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