Chiamare il primo album
One può essere dovuto a una mancanza di idee oppure frutto di un’ambizione dalle ampie vedute come ad intendere: siamo appena all’inizio!
Sono molto gli elementi del debut dei
Vandroya che farebbero optare per la seconda possibilità; il progetto mostra già di avere un certo peso, una lunga gavetta alle spalle (correva l’anno 2001) e buone chance di potersi accaparrare buone fette di quell’audience che predilige un power/prog metal costruito su elementi attingenti all’opera di nomi grossi, sia storici che supergruppi, che evito però di elencare anche perché certi accostamenti io per primo li ho sempre presi con le molle (finisce poi che spesso ci si rimane male, seriamente!) ma ad ogni modo credo ci siamo capiti.
Daisa Munhoz la conosciamo già per la sua opera tra le file dei Soulspell da poco ritornati con
Hollow’s Gathering, e in questa formazione che la vede protagonista copre il ruolo di spicco su cui poi alla fine ruota l’intero progetto: musicalmente tutto suona bene, veramente bene -del resto chi è dedito al progressive e sa suonare, con un minimo di audacia ci mette poco a realizzare un disco decente- e l’impatto è ottimo, impetuoso, sottolineato da una produzione eccellente, ma per gli stessi motivi un ascoltatore attento e rodato potrebbe non esserne folgorato dato che in definitiva l’originalità, comunque da riconoscergli ma non a tutto tondo, non coincide con una vera innovazione e la personalità dei pezzi a volte è un po’ annebbiata nonostante la qualità ci sia. Il tiro è corretto dalla Munhoz che invece di carattere ne ha e anche talento; non la solita bella voce altezzosa e operistica quanto piuttosto una singer irruente e travolgente, a volte passionale ma mai troppo e comunque costantemente incisiva; sembrerà strano ma a volte è capitato anche di sentirla smorzare di netto degli acuti che non gli si addicono e la cosa, qui lo dico e qui lo nego, le rende onore.
La buona intro, strumentale non troppo breve, ci accompagna a
“The Last Free Land”, tra i pezzi di spicco, che ci introduce alle vibrazioni presenti in tutto l’album, gli interventi al piano impreziosiscono molti passaggi come ad esempio nella ballad
“Why Shuold We Say Goodbye” o nella conclusiva
“Solar Night”.
“Within Shadows” si discosta leggermente non snaturando l’idea di un discreto album progressive e di un songwriting visionario come da copertina.
Già in questo primo lavoro potrei dire che ci siamo (cioè lo dico!) ma possiamo aspettarci molto di più da questa formazione. Staremo a sentire!
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