Ricordo perfettamente quando uscì “When dream and day unite”, un’autentica bomba sensoriale, dal fascino ancora “imperfetto” magari, eppure un limpido prototipo di ricerca sonora ad ampio spettro, attenta a rispolverare i temi fondamentali del
prog settantiano adattandoli alla pragmatica intensità dell’
heavy metal. E ricordo altrettanto bene l’effetto dirompente di “Images and words”, perla
assoluta di questa maniera potente, creativa e coinvolgente d’intendere la musica, in grado di conquistare il cuore di migliaia di
rockofili e di produrre un terremoto anche nelle scelte espressive di moltissimi musicisti, da quel momento impegnati strenuamente nel tentativo di replicare quell’attitudine così sagace ed eclettica.
E così, quella devozione che inizialmente era stata accolta assai positivamente come l’esempio da seguire nel perseguimento di una visione artistica priva di vincoli si è lentamente trasformata in una proliferazione impressionante di seguaci più o meno fedeli, con tanti cloni e pochi veri epigoni in grado di offrire qualcosa di proprio alla nobile “causa”.
I Dream Theater hanno innegabilmente significato parecchio anche per la formazione di questi
Azure Agony, gruppo friulano al secondo
full-length (esordio nel 2009 con "Beyond belief" completamente strumentale), ma nonostante qualche ingenuità e talune convenzionalità di “genere”, non mi sento di etichettare “India” come un abulico tentativo d’adeguamento alle modalità operative di modelli tanto “popolari”.
La voce di Federico Ahrens, anche se non particolarmente caratterizzata, è gradevole e abbastanza comunicativa, i brani sono mutevoli senza esagerazioni e la melodia è sempre parte integrante del processo compositivo, così come la tecnica non sembra praticamente mai soffocare la poesia … insomma, i nostri dal
Teatro del Sogno hanno imparato bene i fondamenti e in qualche caso la lezione è stata appresa sviluppando pure i prodromi di una certa “personalità”, certamente da potenziare e ampliare e tuttavia già individuabile con sufficiente facilità.
L’ottimo lavoro di “raccordo” e il gusto estetizzante delle tastiere di Marco Sgubin è un’altra costante importante da evidenziare in un disco che scorre con fluidità senza grossi impedimenti e in cui, nonostante quanto appena affermato, la menzione “d’onore” della cangiante "Private fears”, dell’inquieta “Libra’s fall”, dell’articolata
title-track e ancora del brillante
prog-metal esotico “A man that no longer is” è comunque giustificata da un grado d’ispirazione di livello superiore.
“India” rappresenta la vivida “fotografia” di un percorso all’insegna del
work in progress … la direzione è giusta e la meta non troppo lontana.
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