La peculiarità che salta subito all’occhio di quest’ultimo lavoro dell’ormai storico combo svedese è senza dubbio la sua estensione.
The Living Infinite è infatti stato promosso da subito come “il primo album doppio della storia del death metal melodico”; una scelta quanto meno ambiziosa e importante, anche per un gruppo navigato come i
Soilwork, che, attraverso la loro quasi ventennale attività e la produzione di sette precedenti lavori in studio, hanno sicuramente definito uno stile compositivo personale, riconoscibile e influente su scene musicali quali, ad esempio, il filone metal core degli ultimi anni.
Nonostante la bravura dei nostri e la loro forte personalità, l’impresa dello scrivere un’ora e venti di death metal rimanendo coerenti e freschi dall’inizio alla fine dell’opera, risulta una sfida all’attenzione dell’ascoltatore oltre che alla fantasia creativa dell’artista.
Di fatto, l’album non potrebbe aprire in maniera migliore, con “Spectrum of Eternity” che ci presenta una band in forma smagliante, incredibilmente aggressiva, eclettica, capace di alternare stacchi melodici a sezioni con blast beats che raramente i
Soilwork avevano adottato in precedenza. Un’accelerata che si smorza con i mid tempos dilatati e cadenzati di “Memories Confined” e con il singolo, “This Momentary Bliss”, più dentro lo standard delle precedenti uscite e anche meno interessante.
La formula classica e testata che ha creato il trademark del death metal svedese viene ripetuta con mestiere e capacità attraverso i brani seguenti, proponendo un tessuto di fraseggi di chitarra ritmati e con un occhio di riguardo alla complessità melodica, tastiere che supportano la struttura armonica senza mai strabordare o essere invasive, una sezione ritmica sopra le righe grazie a una performance davvero pregevole del batterista Dirk Verbeuren e una prestazione vocale davvero matura, presente e mai sottotono da parte di Björn “Speed” Strid, arrivato ad un livello davvero notevole di espressività e complessità nelle parti pulite.
Il problema effettivo che si presenta in parecchi pezzi della prima parte dell’album, come in “Tongue”, “Vesta” o “Realm of the Wasted”, è però il fatto che questa formula, a lungo andare, mostra il fianco ed evidenzia i propri limiti, con ogni probabilità dettati dall’età relativamente alta del genere e delle capacità di rinnovare il suo linguaggio all’interno di una struttura che, salvo venire snaturata, lascia davvero poco spazio alla contaminazione e alla sperimentazione. Il risultato è quello d’avere dei brani sicuramente validi e di qualità ma che risultano un po’ sottotono, standardizzati e poco memorabili se paragonati ad altri pezzi contenuti nello stesso lavoro. In sostanza ci sono delle tracce che, nonostante non possano essere definite dei meri riempitivi per allungare il brodo e giungere alla forma del doppio album ad ogni costo, vengono percepiti come meno incisivi o troppo simili ad un esercizio di stile, ad un “già sentito”.
Venendo invece alle buone notizie, ci sono poi delle canzoni, come le due title tracks, “The Living Infinite I” e “The Living Infinite II”, in cui lo stile dei Soilwork riesce a trovare degli spiragli espressivi notevolissimi, e fa spiccare queste composizioni tra le altre per la loro struttura pressoché perfetta, elaborata e complessa senza risultare mai fuori luogo o eccessivamente cervellotica. Qui si nota meglio la solidità della band svedese, capace di giocare ormai confortevolmente con le soluzioni offerte dal genere, fino ad arrivare alla forgiatura di pezzi non banali e che possono risultare ancora attuali e godibili. Avviene così anche nella trascinante “Long Live the Misanthrope”, che, dopo la cupa “Entering Aeons”, apre il secondo disco dell’album, presentandoci un’atmosfera più plumbea e drammatica.
In questa sezione si vede forse il lato più interessante di
The Living Infinite, ben definito da canzoni meno canoniche come l’ottima “Leech”, che disegna un continuo altalenare di situazioni aperte e quasi solari nella loro caoticità a sfoghi stridenti e dissonanti. Dopo la disperata “Rise Above the Sentiment” e la più classica “Parasite Blues” , arriva “Owls Predict Oracles Stand Guard”, una piccola perla che chiude il lavoro e fa presagire un nuovo confine per le future opere di Strid e soci. Una canzone davvero diversa e fuori pista, un’escursione in territori poco esplorati dalla band prima d’ora che ci restituisce un’ultima traccia ipnotica, densa di suggestioni e perfetta per chiudere un lavoro così lungo e articolato.
La sensazione è che i
Soilwork abbiano dato davvero il massimo in questo doppio album, tecnicamente, compositivamente e a livello di produzione
The Living Infinite è sicuramente un lavoro pregevole e curato con precisione certosina, operazione che risulta ancora più notevole se si tiene in considerazione che il gruppo è da poco orfano di uno degli elementi che più aveva contribuito alla stesura del materiale, il chitarrista Peter Wichers, sostituito egregiamente da David Anderson sin dall’anno scorso. Sicuramente i due dischi rappresentano da una parte un apice indiscutibile delle possibilità espressive tanto della band quanto del genere di per se, tuttavia viene da chiedersi se, dopo aver fatto evolvere la propria proposta musicale in maniera sempre coerente sui binari del death metal melodico (a differenza ad esempio di gruppi come
In Flames o
Dark Tranquillity che hanno tentato o trovato strade alternative con altrettanto differenti risultati), i
Soilwork non abbiano trovato, un capolinea del genere, un non plus ultra che necessiterà di una sterzata decisa e vigorosa, magari radicale, in un futuro lavoro, pena la ripetitività e l’auto-riciclo.
In ogni caso,
The Living Infinite rappresenta sicuramente un particolare stato di grazia della band, anche se, forse, volendo trovare un difetto, centra a metà l’obiettivo del doppio album. L’opera non stanca, risultando comunque impegnativa e non di facile assimilazione (il che può anche un notevole pregio). Soprattutto nel secondo disco, capita di percepire un distinto cambio d’atmosfera, che magari avrebbero potuto essere sviluppato e goduto in maniera decisamente migliore se portato avanti su due distinti lavori (un po’ come fecero al loro tempo gli
Opeth con
Damnation e
Deliverance, per intendersi). Qualora sian state scelte commerciali o esigenze espressive, resta la sensazione d’essere arrivati ad un punto fermo del death metal melodico, sarà interessante vedere quanto verrà lasciato al genere e alle sue soluzioni dopo questo lavoro così consistente.