Quando la Nuclear Blast ha annunciato che il nuovo album dei
Soilwork sarebbe stato un doppio mi sono subito domandato, tra il serio e il provocatorio, se veramente ne avevamo bisogno e soprattutto se la band di Helsinborg sarebbe riuscita a proporre qualcosa che evitasse di farci morire di noia… togliamoci subito il dubbio, e diciamo che la noia non è certo la sensazione principe che ci prende durante l’ascolto perché, per quanto possa sembrare strano, trattandosi del nono album in studio, la migliore qualità di quest’album è la freschezza, abbinata alla voglia di divertirsi. In particolare direi che si evince anche una certa spensieratezza nei brani che vanno a comporre questo lunghissimo
“The Living Infinite”, infatti i
Soilwork una volta superato il periodo peggiore della loro carriera coinciso con l’ignobile tripletta
“Figure Number Five” “Stabbing The Drama” “Sworn To A Great Divine”, hanno ormai ripreso, già a partire da
“The Panic Broadcast”, a picchiare duro e a non cercare per forza il ritornello easy listening che ti si pianta subito in testa. Di questa progressivo ritorno al passato, con un occhio sempre ben attento al mercato dei più giovani, ha potuto giovare
“The Living Infinite” che altro non è se non il giusto lavoro dopo tanti anni di una band che, pur non essendo mai stata imprescindibile, ha saputo comunque segnare più di qualche punto a suo favore nella lunga carriera a partire dagli splendidi esordi, fino alla prima evoluzione più melodica.
“The Living Infinite” si piazza proprio a metà tra questi due periodi, riprendendo la ferocia degli inizi con l’aggiunta di una perizia tecnica abbinata ad un gusto melodico più fine ed elaborato, che si è venuto a sviluppare con il passare degli anni grazie anche ad un instancabile serie di tour in ogni angolo del mondo. E’ così che il nuovo album si apre con un trittico mozzafiato,
“Spectrum Of Eternity” che è senz’altro il pezzo migliore dell’album, e che ci propone i
Soilwork alle prese con un attacco a folle velocità sostenuto da un lavoro chitarristico di pregevole fattura e da un uno
Speed Strid in buone condizioni, segue
“Memories Confined” dal riff un po’ più stonereccio che con il suo incedere ci fa battere il testone a tempo per poi arrivare a
“This Momentary Bliss”, che pur essendo un po’ più canonica nella struttura, si può comunque fregiare di un riff molto incalzante e di vocals urlate allo spasimo. Ovviamente, ci sono anche dei momenti di stanca come nella title track parte 1, ma rimaniamo comunque su livelli dignitosi se pensiamo a quanto (di male) fatto in passato. Ciò che mi preme sottolineare è come tutti i pezzi che compongono il disco uno riescano comunque ad andare ben oltre la sufficienza facendo toccare vette molto alte, non solo nei pezzi iniziali, ma anche in
“Realm Of Wasteland” che ricorda molto l’opener, o
“Vesta” dove il chorus pulito mi ha fatto venire in mente i
Depeche Mode più metallari (ammesso che lo siano mai stati…). Di ben altra pasta è il disco due, dove al netto di
“Long Live The Misantrope” e
“Leech”, il resto dei brani non è all’altezza dei precedenti.
Il ritorno dei
Soilwork ci regala dunque un buon lotto di pezzi, ma se il sestetto svedese si fosse limitato a registrare un solo album, evitando più di qualche riempitivo avremmo certamente potuto gridare in pieno al ritorno della band, purtroppo si è voluta mettere troppa carne al fuoco e alla fine qualcosa di indigesto è rimasto…
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