Una delle “ricette” maggiormente apprezzate dall’attuale
business discografico melodico prevede l’incorporamento di una pletora di ospiti (più o meno) “eccellenti” su un gruppo base spesso piuttosto “essenziale”, attuando una strategia che dovrebbe fornire ai tanti (?!?) appassionati del genere adeguate garanzie di competenza e
appeal.
Se per quanto riguarda la prima non ci sono quasi mai vere complicazioni, non sempre, ormai, l’effetto “all star band” assicura una rilevante forma di attrattiva, in un
rockrama fortemente “tecnologico” in cui le collaborazioni di “nome” sono piuttosto agevoli e all’ordine del giorno.
E allora, com’è giusto che sia del resto, sono altre le considerazioni da fare per giudicare progetti artistici di questo tipo, che anzi alla fine possono rischiare addirittura di apparire a priori fin troppo adulterati da fastidiosi manierismi oltre che da fatali disomogeneità.
Con questi presupposti diciamo che il lavoro dei
Sapphire Eyes, formazione allestita in prima battuta da Niclas Olsson degli Alyson Avenue e da Thomas Bursell, e poi rimpolpata da una schiera abbastanza rilevante di
additional musicians (si va dai “vecchi” amici e dai collaboratori abituali Göran Forssén, Christofer Dahlman, Mikey K Nilsson, Anette Olzon e Arabella Vitanc, fino a Mikael Erlandsson di Last Autumn’s Dream e Salute e Mike Andersson dei Cloudscape, passando per Sven Larsson di fama Street Talk e Lionville e per Rik Priem dei Frozen Rain …), ha il merito di essere sufficientemente compatto e di non sembrare quasi per nulla un’operazione “forzata” o realizzata “a tavolino”, offrendo di sé un’immagine alquanto sincera e disinvolta.
Il
songwriting, però, edificato sulle “sacre scritture” tramandate ai posteri da Journey, Brian Adams, Bad English e Bon Jovi, sebbene esente da difetti “formali”, non riesce a trasmettere completamente quel senso di profondo coinvolgimento emotivo che differenzia una “bella calligrafia” da un componimento davvero avvincente, finendo per affidare un discreto numero delle canzoni del disco ad una gradevolezza
epidermica inidonea alla grande competizione offerta dal mercato “adulto” contemporaneo.
Tra i momenti più riusciti del programma vanno assolutamente annoverati la grazia di “You’re my wings” e della sofferta “Can’t find the words”, alimentate dalla preziosa ugola di Erlandsson, la squisitezza Journey-
iana “Only feel love”, la
catchiness di “This love this time” e, a breve distanza, pure l’atmosfera notturna di “Lay down in my arms”, mentre sono Andersson e Dahlman ad imprimere al
mid-tempo “A man the world can do without” il
boost emozionale che lo rende il verosimile
best in class della raccolta.
“Sapphire eyes” è da considerare una sorta di prodotto a “capitale garantito”, se mi passate la similitudine finanziaria, caratterizzato da pochi “rischi” e dalla certezza di una buona resa priva di sconvolgimenti … a voi scegliere che tipo d’
investitori volete essere …
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