Praticamente era dal 1999 che i
Fatso Jetson non davano alle stampe qualcosa di sostanzioso. Dopo il robotic-rock di “Flames for all” ed il migliore e stoneggiante “Toasted”, solamente sporadiche partecipazioni a tributi e compilations. La scelta di non pubblicare materiale solo per esigenze di mercato, come fanno tanti, non era però sintomo di inattività.
Prime-movers dell’area desert rock che vede come punta di diamante i QotSA, sostenitori indispensabili delle Desert Sessions, ospiti di riguardo nella maggior parte dei lavori che nascono tra i cactus del Rancho de la Luna (esempio recente “Millionaire”, l’opener di “Songs for the deaf”, della quale Mario Lalli è coautore con Homme), rispettati ed omaggiati dall’intera scena stoner, i Fatso Jetson hanno atteso il momento giusto per produrre quello che è sicuramente il loro album più corposo e riuscito.
Sull’onda del successo mondiale dell’ultimo QotSA e dello stupendo live dei Masters of Reality arriva “
Cruel and delicious” per la
Rekords Rekords, l’etichetta nuova di zecca di proprietà di Josh Homme.
Il materiale accumulato dai fratelli Lalli è di primissima qualità perché all’altezza di miscelare in modo omogeneo le svariate influenze sempre presenti in gruppi di questo genere: hard rock, blues, stoner, punk, seventies, melodie psych-pop e così via. Canzoni che paiono prelevate dalle sessioni del deserto, come le ipnotiche “Heavenly hearse” e “Iron chef” dall’incedere meccanico ed avvolgente a ribadire le teorie robot-rock, alternate a nitidi e pulsanti heavy rock marchiati inconfondibilmente dall’impatto chitarristico e dalla calda voce bluesy di Mario (“Pleasure bent”,”Party pig”). Brillanti esperimenti psicotici come “Drinkin mode” dall’indole punk costruita su una sferragliante sezione di fiati, opposti ad un rilevante rockblues che nella sua purezza accademica suona maledettamente identico alle cose degli Half Man (“Superfrown”). Brani concisi, con predilezione per le situazioni strumentali, sfoltiti di ogni inutile orpello, che conficcano stuporosi artigli melodici e refrain di rock adulto ed evoluto alla maniera dei MoR (“Light yourself on fire”,”Stranglers blues”) ma anche capacità di lasciarsi scivolare dentro un trip lisergico in sintonia con la tanto vituperata scuola stoner (“Mountain of debt”). Perfino una sintetica cover dei Devo (“Ton o luv”) che rinnova l’idea di un rock androide e futurista, per completare un disco pieno di idee eccitanti e geniali, caleidoscopiche ed originali, eleganti e ricche della modestia di chi punta al cuore della musica lasciando ai mediocri i vuoti involucri di facciata.
Per i Fatso Jetson, ancor più di altri, appare restrittiva l’etichetta di stoner band, troppo elusiva ed acrobatica la loro proposta, troppo nebulosi anche in proiezione futura i suoi confini. Resta comunque il convincimento che solo gli appassionati di quel genere, predisposti da sempre ad uno spettro sonoro senza confini, sapranno apprezzare una formazione che non si trincera dietro le barricate degli stili immutabili.
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