Giunti al quinto lavoro in studio, i canadesi
KEN Mode (se ve lo state chiedendo, KEN sta per “Kill Everyone Now”) ripropongono la loro formula vincente già vista solida e padroneggiata in
Venerable: suonare per prendere a randellate in volto l’ascoltatore.
Lo si capisce subito, sin dai primi pezzi di
Entrench, che le influenze di
Unsane e
Helmet, che quell’attitudine diretta ma mai scontata, la maniera di comporre, breve e senza fronzoli, la cattiveria e la ruvidezza hardcore durissime a morire sono tornate e sono più in forma che mai. C’è dentro tutto quel che ha caratterizzato tanto il gruppo di Winnipeg quanto l’intera scena noise rock tra anni 90 e primi 2000: brani concisi, d’impatto che tuttavia sanno inventare sempre qualche novità, qualche nota di freschezza che li fa deviare da una potenziale formula scontata.
Non c’è imitazione di questo o quel modello in Entrench, sebbene sia ben chiaro cosa i
KEN Mode abbiano in mente mentre suonano: piuttosto, c’è la sicurezza e la familiarità di suonare qualcosa che viene tanto dal cuore quanto dalle viscere e dalla testa. I fratelli Matthewson, infatti, masticano questo linguaggio ormai dal 2003, un codice musicale fatto di strutture ritmiche veloci e schizofreniche, riff di chitarra dissonanti, ipnotici e testi urlati in faccia all’ascoltatore: una maniera per esprimere una rabbia moderna, claustrofobica e mai pienamente consumata.
Nell’opener Counter Culture Complex, così come nella mastodontica The Promises of God e nella disperate Figure your Life Out e Daeodon ci sono delle aperture melodiche che fanno respirare ritornelli o stralci di cori, imprimendoli nella memoria, preparando l’ascoltatore al successivo assalto sui propri timpani, portato in toto da veri e propri pezzi classici dell'hardcore/noise come No; I'm In Control, Your Heartwarming Stories Make Me Sick, secret Vasectomy o la più cupa e lenta The Terror Pulse.
Da notare anche la presenza di un pezzo come Romeo Must Never Know, che strizza quasi l’occhio a suggestioni post rock, aperte, chitarristiche e sorprendentemente pulite, trasognate, senza mai però perdere il gusto per la causticità e la pesantezza di un sound inconfondibile. Una sorta di ripresa ed espansione maturata delle sonorità sperimentate con The Irate Jumbuck su
Venerable.
A chiudere, un perfetto commiato arriva con la frenetica e breve Why Don’t You Just Quit? seguita da Monomyth, pezzo atmosferico, corale, in assenza di voce e sezione ritmica, in cui la chitarra dialoga con archi, pianoforte e sintetizzatori, proponendo una faccia dei
KEN Mode che sa tanto di quiete dopo una tempesta perfetta: assolutamente non scontata e non fuori luogo.
Dischi simili, fatti di pura rabbia, aggressività e attitudine, a volte, ti mettono proprio in pace con il mondo.
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