Questa ristampa del primo disco solista di
Jeff Lynne, pubblicato originariamente nel 1990, sembra davvero perfetta per i nostri tempi. Cosa c’è di meglio di leggerezza e ironia per risollevare gli animi dalle frenesie quotidiane e dagli opprimenti influssi della congiuntura economica, per non parlare poi dello stato di disagio innescato ogni santo giorno dal “teatrino” della politica?
Sono certo che qualche irriducibile “difensore della fede metallica", casualmente impegnato nella lettura, avrà da obiettare e potrà consigliare soluzioni diverse, ma è difficile comunque non tributare al nostro e alle sue principali manifestazioni artistiche (Move, ELO e Traveling Wilburys …) il giusto riconoscimento in fatto di
pop-rock raffinato e solare, a volte un po’ pacchiano, forse, eppure sempre piuttosto gradevole e accogliente.
(Ri)scoprire “Armchair theatre” vi garantirà esattamente queste sensazioni, consentendovi di fotografare le doti innate di un personaggio da rivalutare assolutamente, anche in periodi in cui certe operazioni sono frequenti e talvolta pure vagamente “generose”.
Plauso alla Frontiers, dunque, che aggiunge un’ulteriore tessera al processo di “recupero” dell’arte di Lynne, addizionando, come di consueto, al programma originale un paio di sfiziose
bonus-track (“Borderline”, dai suggestivi accenni
folk, e “Forecast”, una graziosa ballata Beatles-
iana, entrambe risalenti al 1989) e riconsegnando al pubblico dei
musicofili un dischetto per molto tempo praticamente irreperibile.
E allora immergiamoci in questo mondo di pomposo
R&B, ("Every little thing”, "Nobody home”), di
rock n’ roll (l’ondeggiante “Don’t let go” e la più melensa “Don’t say goodbye”), di spigliato
pop-rock (“Lift me up”, con un afflato evocativo che potrebbe piacere anche ai
fans di John Wetton, “What would it take”, non lontana da certe cose dei Player e la sontuosa “Blown away”, scritta con Tom Petty), di ricercati
esotismi (“Now you’re gone”) e di suggestioni cantautorali (la Dylan-
esque “Save me now”).
Se poi volete scoprire da dove arriva la propensione alle
cover che ha alimentato il recente (e
deboluccio, in realtà …) “Long wave”, la trascrizione di due
standard come “September song” e “Stormy weather”, sviluppata percorrendo l’impervio confine tra levità e pretenziosità, potrà fornire indizi eloquenti, mentre segnalare la presenza di George Harrison e Richard Tandy arricchisce di pregio e prestigio un dischetto “invecchiato” abbastanza bene e che si ascolta sempre con grande piacere, magari proprio dopo una giornata convulsa e irritante, così tipica nel nostro controverso terzo millennio.
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