Concept sui sette peccati capitali per il ritorno discografico dei siciliani
Trinakrius, in un lavoro piuttosto sorprendente per come riesce a tradurre in maniera autoctona e personale i modelli fondamentali del gruppo, riuscendo molto spesso a fornire un’immagine nitida di autentica ispirazione, in luogo di quella ben più comune che effigia tentativi imitatori più o meno riusciti.
Nei solchi digitali di “Seven songs of the seven sins” individuerete facilmente l’influenza del metallo gotico di Candlemass (e Black Sabbath, ovviamente), Warlord e Cirith Ungol, del
power americano di Savatage e Sanctuary (non a caso omaggiati con un’eccellente rilettura della loro “Die for my sins”, in questo contesto molto appropriata anche per affinità tematiche …), ma anche suggestioni d’interpreti più “moderni” del genere come Evergrey e Grand Magus, per un quadro generale che, però, riesce a pagare il tributo nei confronti dei “maestri” attraverso l’arma invincibile della vocazione spontanea e della vitale forza espressiva.
Merito di un
songwriting che ha la capacità d’istaurare un clima drammatico, possente e oscuro, e di musicisti in grado di trasporre efficacemente in note tale fascinosa suggestione, con una menzione speciale per la
new entry (in una formazione profondamente rinnovata) Fabio Sparacello, un
vocalist di talento sicuramente devoto al “verbo” del maestoso Messiah Marcolin e pure
verosimilmente attento alle evoluzioni canore di un Serj Tankian o alle sofferte interpretazioni di un Layne Stanley.
In assoluto, il disco evidenzia anche un paio di momenti leggermente meno efficaci, come accade nella pur potente
opener “Pride”o negli strappi violenti dell’aggressiva “Greed”, entrambi abbastanza “ordinari”, mentre è in pratica
irrealistico non rimanere “impressionati” dalle cadenze plumbee di “Sloth” (una sorta di
hard-doom-psych-metal assai avvincente, con bagliori di Alice In Chains nell’impasto sonoro), dal fascino straniante di “Envy” (con il suo conturbante violino), dall’evocativa cornice epica di “Gluttony” e dalle melodie contagiose e volubili di “Lust”, tutto materiale di prima scelta in fatto di tensione emotiva e distinzione creativa.
Accolgo, poi, con enorme piacere l’ultimo tassello del programma “originale”: “Ira” rappresenta la conferma inoppugnabile della congenialità dei Trinakrius con la madrelingua e mi consente di ribadire il mio incondizionato plauso per chi è in grado di trasformare il coraggio per una scelta idiomatica irta d’insidie in una porzione musicale densa di
pathos, di lirismo e d’imperiose scosse sensoriali.
L’invito conclusivo è di offrire una meritata possibilità a questo “Seven songs of the seven sins” e ai suoi valenti autori … scoprirete che il “classico” può ancora essere produttivo e andare oltre il cumulo massificante di un
trend sempre più diffuso e frequentato.
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