Trinakrius - Seven Songs of the Seven Sins

Copertina 8

Info

Anno di uscita:2013
Durata:45 min.
Etichetta:End Of The Light Records

Tracklist

  1. PRIDE (I AM THE ONE)
  2. SLOTH (SHELVE AND DELAY)
  3. ENVY (MALICIOUS DESIRES)
  4. GLUTTONY (ANOREXIA)
  5. LUST (SEXHUMANITY)
  6. GREED (ALL MINE)
  7. IRA (L'OSCURA ASCESA)
  8. DIE FOR MY SINS (SANCTUARY COVER)

Line up

  • Fabio Sparacello: vocals
  • Claudio Florio: drums, growl vocals
  • Emanuele “ Izzy “ Bonura: guitars
  • Alessio Romeo: keyboards
  • Francesco Rubino: bass

Voto medio utenti

Concept sui sette peccati capitali per il ritorno discografico dei siciliani Trinakrius, in un lavoro piuttosto sorprendente per come riesce a tradurre in maniera autoctona e personale i modelli fondamentali del gruppo, riuscendo molto spesso a fornire un’immagine nitida di autentica ispirazione, in luogo di quella ben più comune che effigia tentativi imitatori più o meno riusciti.
Nei solchi digitali di “Seven songs of the seven sins” individuerete facilmente l’influenza del metallo gotico di Candlemass (e Black Sabbath, ovviamente), Warlord e Cirith Ungol, del power americano di Savatage e Sanctuary (non a caso omaggiati con un’eccellente rilettura della loro “Die for my sins”, in questo contesto molto appropriata anche per affinità tematiche …), ma anche suggestioni d’interpreti più “moderni” del genere come Evergrey e Grand Magus, per un quadro generale che, però, riesce a pagare il tributo nei confronti dei “maestri” attraverso l’arma invincibile della vocazione spontanea e della vitale forza espressiva.
Merito di un songwriting che ha la capacità d’istaurare un clima drammatico, possente e oscuro, e di musicisti in grado di trasporre efficacemente in note tale fascinosa suggestione, con una menzione speciale per la new entry (in una formazione profondamente rinnovata) Fabio Sparacello, un vocalist di talento sicuramente devoto al “verbo” del maestoso Messiah Marcolin e pure verosimilmente attento alle evoluzioni canore di un Serj Tankian o alle sofferte interpretazioni di un Layne Stanley.
In assoluto, il disco evidenzia anche un paio di momenti leggermente meno efficaci, come accade nella pur potente opener “Pride”o negli strappi violenti dell’aggressiva “Greed”, entrambi abbastanza “ordinari”, mentre è in pratica irrealistico non rimanere “impressionati” dalle cadenze plumbee di “Sloth” (una sorta di hard-doom-psych-metal assai avvincente, con bagliori di Alice In Chains nell’impasto sonoro), dal fascino straniante di “Envy” (con il suo conturbante violino), dall’evocativa cornice epica di “Gluttony” e dalle melodie contagiose e volubili di “Lust”, tutto materiale di prima scelta in fatto di tensione emotiva e distinzione creativa.
Accolgo, poi, con enorme piacere l’ultimo tassello del programma “originale”: “Ira” rappresenta la conferma inoppugnabile della congenialità dei Trinakrius con la madrelingua e mi consente di ribadire il mio incondizionato plauso per chi è in grado di trasformare il coraggio per una scelta idiomatica irta d’insidie in una porzione musicale densa di pathos, di lirismo e d’imperiose scosse sensoriali.
L’invito conclusivo è di offrire una meritata possibilità a questo “Seven songs of the seven sins” e ai suoi valenti autori … scoprirete che il “classico” può ancora essere produttivo e andare oltre il cumulo massificante di un trend sempre più diffuso e frequentato.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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