Arrivo con qualche giorno di ritardo rispetto all’uscita a parlarvi di questo
Coal, quarto album dei
Leprous, per due motivi. Il primo è che ho avuto parecchia roba da fare e poco tempo per farla, il che non interessa a nessuno, il secondo è che ho avuto nelle orecchie per giorni e giorni questo disco e tuttora, devo essere sincero, non so proprio bene cosa dirvi.
Pochi mesi fa esaltavo forse con un fin troppo stretto 8,5
Bilateral, penultima fatica discografica del combo norvegese, un album che mi ha tenuto compagnia davvero per diverso tempo ed è entrato tra i top degli ultimi anni, almeno nel mio personalissimo gotha.
Potete dunque capire quanto fosse spasmodica l’attesa per questa nuova avventura targata Leprous. Un’attesa ripagata da un disco che fatico ad assimilare. Non che fosse lecito attendersi qualcosa di statico e poco sorprendente da questi ragazzi, ma un album così proprio non me lo aspettavo.
Coal è a mio modo di vedere un disco in buona parte sbagliato. Probabilmente, dopo un paio di capolavori, decidere quale sentiero intraprendere appariva comprensibilmente complesso. Dunque cosa hanno fatto i Leprous? Hanno osato. Il che di per sé non rappresenta certo una cosa negativa. Il problema è che hanno osato toccare quanto di sacro avevano saputo creare nel passato, andando a distruggere ciò che rendeva il loro personalissimo progressive unico: l’immediatezza. Se, infatti, le composizioni della band non hanno mai brillato per semplicità, quello che colpiva nei precedenti album è sempre stata la capacità di entrare in simbiosi con l’ascoltatore nel giro di un paio di ascolti, per invaderne la mente a fondo, totalmente, in un turbinoso orgasmo sonoro difficile da provare.
E invece Coal è freddo: rimane lì a guardarti dall’alto, con presunzione, attirandosi perfino antipatia in alcuni frangenti, soprattutto in quelli in cui si cerca di pescare nelle moderne sonorità alternative qualche novità. Sicuramente rimangono i tratti che tanto hanno fatto amare questa band, come la ricercatezza delle linee vocali e il gioco di genere, l’amore per le atmosfere e la follia progressiva, ma i pezzi realmente in grado di rievocare i fasti del passato sono pochi: la title-track,
Echo e qualche estratto da un paio di altri pezzi. Per il resto il livello rimane buono ma non sorprende, non emoziona, non trascina.
Parlo di livello buono perché è giusto capirsi per bene: intendo un livello artistico che il 95% delle band si sogna di notte e forse manco arriva ad immaginare. Ma il fatto di avere tali incredibili capacità e di avere il coraggio di provare ad usarle non porta automaticamente ad esaltare il risultato quando questo non riesce a convincere. Anzi, porta ad evidenziare le carenze quando il risultato non è all’altezza.
La mia recensione di
Bilateral si concludeva così:
"A questo punto possono diventare enormi con un disco epocale o fregarsi completamente con qualche tavanata, ma spero sinceramente che continuino a camminare sulla retta via."Ecco, assolutamente non stiamo parlando di una ciofeca, ma in confronto a quello che ci si poteva attendere questo è un album mediocre. Soprattutto, state ben attenti: è un album da ascoltare prima di decidere quanti soldi spenderci. Per quanto mi riguarda, la delusione è parecchia e il voto parla chiaro: il passo indietro è evidente.