Il mondo è bello perché è vario. Questo è quello che devono aver pensato i quattro simpatici finlandesi durante la stesura del loro debutto discografico e leggendo la loro biografia mi pare anche abbastanza scontato, provenendo praticamente tutti da esperienze diverse.
La proposta dei
Red Eleven, che si chiamavano Project Red Eleven prima di far fuori il Project, è infatti molto variegata e pesca da tanti generi diversi, rischiando alla lunga di risultare un po’ dispersiva e di confondere un tantino le idee di chi si trova ad ascoltarli.
La base su cui poggia l’intero lavoro è un misto di riff pesanti e armonie leggermente dissonanti, che tante volte vanno a richiamare gruppi come
Alice In Chains, Faith No More, Down e compagnia bella e fin qui nulla da eccepire, perché pur rifacendosi ai sopracitati numi ispiratori i Red Eleven mantengono un elevato livello di personalità e originalità.
I dubbi iniziano a sorgere quando sparse qua e là cominciano a comparire tracce che vanno in direzioni totalmente diverse, come
Floating in cui sembra di sentire echi di Santana oppure
Streets Of Forgotten dove all’improvviso arriva un ritornello in pieno stile primi Bon Jovi (!!!), per finire con cenni neanche poco evidenti a band come Dream Theater, Meshuggah, Pantera e Soundgarden.
L’apertura è affidata ad
Adrenaline il cui riff iniziale mi ha fatto temere una strofa cantata da James LaBrie con voce filtrata alternata agli imbarazzati tentativi di growl di Portnoy. Per fortuna non è stato così e la canzone scivola via che è un piacere tra riff aggressivi e refrain molto post grunge che riescono a catturare l’attenzione fino alla successiva
The Nest in cui i ritmi diventano più pacati e il cantante gioca su passaggi molto ben studiati tra voce pulita, filtrata e leggermente growl che conferiscono al tutto un’atmosfera molto opprimente.
Proud To Be Proud ha un’intro che vorrei continuare ad ascoltare tutto il giorno, tirata, cattiva e incazzata al punto giusto ed è probabilmente una delle più riuscite del lotto, così come
W.M.F.F. che però fa leva su caratteristiche più Soundgardeniane.
Da qui in poi il minestrone inizia a diventare meno omogeneo pur perdendo relativamente poco a livello qualitativo, come se qualche ingrediente fosse stato messo per errore o per fare numero. Tra un paio di elementi decisamente sottotono, puntatine in generi ben lontani da quelli che i Red Eleven ci hanno proposto finora, l’ascolto si fa meno fluido e si perde un po’ il bandolo della matassa, ma per nostra (e loro) fortuna è solo un passaggio a vuoto breve e a partire dalla bella Overloaded fino alla conclusiva Allies si torna sugli stessi livelli delle prime canzoni.
Idiot Factory è indubbiamente un buon album, carico di energia e se vogliamo abbastanza innovativo nel suo complesso, anche con i difetti di cui abbiamo parlato. La struttura portante è forte e si sente che ci sono tante ottime idee, il difficile sta nel creare l’amalgama giusto per dar vita a qualcosa di ben più interessante.
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