Come tutti gli appassionati di
hard rock dotati di (un minimo …) raziocinio, non smetterò mai di essere grato a Richard Hugh Blackmore, per l’enorme contributo fornito alla “causa”, sia in “prima persona” e sia come modello per intere progenie di adepti.
La sua scelta di abbandonare quel mondo per intraprendere al fianco della mogliettina Candice una “seconda vita” nel fatato universo della musica celtica e medioevale(-
ggiante), ha inevitabilmente gettato nello sconforto molti dei suoi storici sostenitori, i quali, comunque, non potranno perlomeno accusare il nostro, una volta intrapreso il nuovo percorso espressivo, di scarsa coerenza, in un ambito in cui i ripensamenti sono frequenti e sfacciati almeno quanto i proclami di “fedeltà”.
Il successo ottenuto dai
Blackmore’s Night ha “probabilmente” avuto un certo peso in tale manifestazione di perseveranza, la quale oggi giunge alla ottava prova discografica in studio con un lavoro, “Dancer and the moon”, che ancora una volta farà gioire gli estimatori della svolta coniugale dell’ex “man in black” e indispettire chi invece la considera un inutile e un po’ risibile spreco di talento.
Ciò detto, l’
album, alimentato dal fascino inesauribile del nostro satellite naturale (che tanto ha fatto nell’ispirazione di musici, poeti, pittori, scienziati e semplici languidi contemplatori …), è
obiettivamente un buon esempio di
folk-rock raffinato e accessibile, suonato e cantato divinamente, forse solo leggermente troppo scontato e manieristico per trasportare davvero l’astante in quel clima di ancestrale mitologia fantastica da considerare come la reale destinazione sensoriale di un prodotto di questo tipo.
Personalmente adoro quando Blackmore, indifferente alle prevedibili censure, celebra il suo “passato” e quindi direi di cominciare l’analisi dei contenuti del Cd proprio da “The temple of the king”, pregevole trascrizione di un pezzo immortale di quella gloriosa creatura chiamata Rainbow e da "Carry on ... Jon”, un appassionato strumentale dall’afflato vagamente Purple-
esque, momenti di notevole suggestione volti a ricordare due miti
veri, mai troppo rimpianti, come Ronnie James Dio e Jon Lord, che con il buon Ritchie hanno condiviso un bel pezzo di esistenza, fatta di popolarità, vivaci controversie e tanta musica straordinaria.
Alla suddetta categoria, poi, possiamo affidare anche “Lady in black” degli amici / rivali Uriah Heep, un altro intramontabile classico che anche in questa riuscita trascrizione si conferma un gioiellino pagano intriso di leggenda e di un forte impatto emozionale.
Meno efficaci appaiono “I think it's going to rain today” (anch’essa una
cover, di Randy Newman …) un
pop-folk-rock gradevole ma un po’ superficiale, “Troika”, una
giga della
steppa tanto dilettevole quanto leziosa e la pur gradevolmente briosa
title-track, mentre gli arcani affreschi di “The last leaf”, le delizie rinascimentali di “Minstrels in the hall” e “Galliard” (parafrasi sinfonica della già nota “Prince Waldeck Galliard”), l’incantevole nenia "The ashgrove” e il lirismo da brividi concesso alla fiabesca “The spinner's tale”, esaltano le migliori e qualità dei Blackmore's Night nel campo della malia interpretativa, producendo nell’astante un profondo e duraturo stato d’incanto emotivo.
Interessante, infine, il contrasto creato dal binomio “Somewhere over the sea (the moon is shining)” / ”The moon is shining (somewhere over the sea)”, lo stesso brano declinato nel primo caso in una delicata ed elegiaca versione acustica e nella seconda circostanza traslitterato in una sorta di straniante vicenda
dance-folk … buone vibrazioni da entrambe, nonostante l’iniziale sconcerto procurato da quest’ultima.
Con “Dancer and the moon” la
famiglia Blackmore continua imperterrita a proporre la sua sofisticata miscela di
rock e tradizione, consentendo agli ammiratori di continuare a godere e ai denigratori di seguitare nelle critiche … in fondo, anche questa è
armonia.