Mannaggia, che peccato!
Quando, alcuni giorni orsono, riuscii ad accaparrarmi la recensione dell’ultimo lavoro dei
Thrudvangar, stracciando sul fil di lana l’agguerrita concorrenza (?), credetti di aver compiuto un’operazione di mercato a dir poco lungimirante. Il gruppo, relativamente sconosciuto ma alfiere di un solido viking metal (branca che mi aggrada parecchio), presentava a mio modo di vedere ampi margini di miglioramento: dopo il buono ma acerbo Zwischen Asgard und Midgard e il più che discreto Durch Blut Und Eis, era lecito attendersi una progressione che conducesse ad un lavoro infine ottimo sotto tutti i punti di vista.
Il primo brano del platter, titolato Tiwaz (corrispondente germanico del dio Týr), non ha fatto che innalzare il mio livello d’ottimismo. In effetti la title track, dopo un malinconico arpeggio, apre le danze alla grande: riffs trascinanti e atmosfere ispirate al punto giusto. Addirittura, mi sentivo già pronto a perorare con forza la candidatura di Tiwaz a primo top album della mia ancora acerba carriera di writer di Metal.it...
E invece? Invece, proseguendo nell'ascolto, mi sono reso conto di aver cantato vittoria troppo presto.
Senza girarci troppo attorno: qualcosa, dopo la lodevole opener, s’inceppa. Già la seconda canzone della tracklist si presenta in modo meno convincente, pur riuscendo a rialzarsi in occasione del chorus, le cui splendide melodie chitarristiche, addirittura, mi han fatto tornare in mente l’inarrivabile esordio discografico dei Naglfar (breve inciso: a parere dello scrivente, Vittra rimane uno dei migliori album mai usciti dalle gelide terre scandinave). Con la successiva Der Letzte Weg andiamo ancor peggio: ciò che nelle presumibili intenzioni della band avrebbe dovuto essere un roccioso mid tempo epico, si rivela in realtà brano noioso e senza mordente. Frei alza nuovamente il ritmo ma non la qualità, invero bassina; il quinto pezzo, in teoria il più violento e brutale del lotto, scorre senza lasciar traccia…
Insomma, avrete capito l’antifona: l’ultima fatica dei Thrudvangar mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Nemmeno i successivi ascolti sono riusciti a convincermi della bontà di Tiwaz; anzi, se possibile ne hanno acuito le lacune. Se in prima istanza avevo comunque apprezzato il modo coraggioso con cui i teutonici avevano affrontato la materia viking (senza ricorrere all’ausilio di strumenti dell’epoca, di keyboards o di parti vocali in clean), devo dire che, alla lunga distanza, la scelta non paga, rendendo i brani troppo simili tra loro per songwriting e feeling. La produzione, poi, non aiuta certo la causa: pulita, nitida, ma del tutto incapace di donare dinamicità alle composizioni.
Le lacune di cui sopra rendono i nostri teutonici, tanto per citare gli Elio e le Storie Tese, un gruppo né carne né pesce (o weder fisch noch fleisch, come direbbero loro): troppo pesanti per stuzzicare un metaller poco avvezzo alle frange più estreme del genere (anche per colpa di un growling davvero monocorde), eppur troppo insipidi per i cultori del viking più fiero e pugnante.
Il disco, a scanso di equivoci, non è brutto in senso assoluto; tuttavia, temo lascerà ben poca traccia di sé, e finirà inevitabilmente nel dimenticatoio nel giro di pochi giorni.
Spiace rilevare come, in ultima analisi, i Thrudvangar abbiano registrato un sensibile passo indietro rispetto alle precedenti prove. Speriamo in un pronto riscatto a partire dal prossimo lavoro.