Andrew Stockdale è un chitarrista/cantante australiano di trentasette anni, ma soprattutto è stato fondatore ed anima dei Wolfmother, la rock band autrice di due album che hanno ottenuto pieno consenso dai critici e dal pubblico. Infatti già all’indomani di “Cosmic egg” (2009) erano cominciate notizie, conferme e smentite riguardo il terzo capitolo discografico della formazione. Intanto, però, la line-up perdeva i pezzi, e durante le registrazioni del 2012 il leader rimaneva l’unico membro del quintetto originale. Così Andrew ha deciso di pubblicare il nuovo disco come fosse un suo progetto solista, per rispetto verso i compagni vecchi e nuovi.
Questa la genesi di “Keep moving”, variegata raccolta di brani che esprimono tutta l’ecletticità e la bravura di questo musicista, capace di rinfrescare classiche tematiche rock, blues, psych, grazie ad una scrittura che non sarà magari innovativa ma risulta pienamente efficace.
Prendiamo il singolo “Long way to go” o la title-track: canzoni energiche, vitali, divertenti, costruite sull’hard groove dal sapore settantiano ed anche modernamente orecchiabili, ma che soprattutto lasciano trapelare l’entusiasmo di Stockdale, una costante che illumina l’intero lavoro. Se l’inizio contiene un eco zeppeliniano, anche per la voce dai toni alla Plant, più avanti emerge marcatamente l’aspetto stilistico stoner-psych e l’influenza Sabbathiana in una serie di episodi che faranno la gioia dei fans dei Wolfmother. Mi riferisco in particolare a “Vicarious” ed alla bellissima “Year of the dragon”, torbide e ricche del chitarrismo di alta qualità di Andrew, ma anche alla coppia “Meridian” e “Ghetto” dal tiro incalzante e gravido di umori acidi.
Da qui in avanti l’album alterna pezzi “vintage” giocati su spessi riff bluesy (“Let it go, Let somebody love you, Standing on the corner”) a vere ballate acustiche o elettroacustiche, frutto forse di una certa evoluzione musicale in senso romantico avvenuta negli ultimi tempi (“Suitcase, Country, Black Swan, Everyday drone”). Rispetto al passato si notano anche rifiniture ed arrangiamenti più ricchi e curati, in particolare gli interventi dell’hammond per fornire retrogusto seventies.
Diciassette brani, un ora e un quarto di musica, evidentemente l’artista australiano desiderava sfogare la frustrazione per i tanti problemi incontrati, ma anche dare un saggio dell’ampiezza delle proprie influenze e capacità. Davvero poche le tracce sottotono, in un album rock a tutto tondo che si allontana in parte dalle direttive dei Wolfmother. Ma la sensazione è che Stockdale conserverà i suoi fans e probabilmente ne conquisterà di nuovi, specie in patria, grazie all’atmosfera sciolta ed orecchiabile che pervade gran parte del disco. Ottima prova per un musicista in grande spolvero.
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