Però, che bel casino!
Questa la sopraffina elucubrazione che mi ha suscitato l’ascolto di Kether, terza fatica degli I Klatus. Per tentare di mettere un po’ d’ordine, partiamo dalle poche certezze a nostra disposizione: i nostri provengono dall’affascinante Chicago, e sono fautori di un sound astrattamente inquadrabile nell’alveo dello sludge.
I primi riferimenti stilistici che mi sento d'indicare, in effetti, sono Ufomammut e Yob; purtuttavia, nell’ora scarsa di musica presente sul platter in esame si può trovare molto, molto di più di una mera copia carbone dei succitati gruppi. La band dell’Illinois fa davvero di tutto per esprimere la propria personalità, grazie a un approccio oltremodo libero (oserei dire addirittura anarchico) al songwriting. Ciò permette alle dodici tracce in scaletta di divenire sfuggente ricettacolo di atmosfere e sensazioni anche contrastanti tra loro, in un dedalo d’impressioni death metal, noise psichedelico, doom, *core e parentesi riflessive dal forte sapore sciamanico. Un melting pot affascinante, il cui unico elemento di continuità è costituito dalle furiose urla del singer Tom Denny.
Tuttavia, sarebbe ingeneroso liquidare l’album come una pretenziosa mistura di generi. Se è vero che a un primo ascolto le tante influenze musicali del combo americano paiono formare un insieme frammentario e disomogeneo, è altrettanto vero che, concedendogli ulteriore fiducia e tempo, Kether fiorisce letteralmente, disvelando infine il suo notevole potenziale.
Così, pezzi lenti e soffocanti come l’opener John of the Network (una delle più tipicamente sludge del lotto) si alternano a interludi sperimentali quali Flailtank o Karma and Forgiveness, passando per schegge impazzite come By the Coercion Of Marduk.
Tuttavia, è proprio laddove i nostri riescono a far convivere le diverse anime all’interno dello stesso brano che risultano più convincenti: ciò si arguisce piuttosto facilmente dall’ascolto delle ottime Antediluvian Knowledge (tanto soffusa ed eterea nell’incipit quanto vibrante nella seconda parte) e la lunga Portals (Under the Lake), dotata di eccezionali divagazioni strumentali.
In definitiva, reputo siano senz’altro da lodare la duttilità e la libertà compositiva di un gruppo che presenta evidenti margini di crescita ma che, purtroppo, non potrà più contare sull'apporto del bassista Tariq Ali, tragicamente scomparso all'età di 28 anni.
Anche se per decriptarli ho fatto una discreta fatica, promuovo quindi gli I Klatus a pieni voti. Se masticate il genere e avete coraggio, provateci: potreste scoprire una piccola gemma underground.
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