Quale sarà la migliore versione dei
King Kobra? Quella originale con il fenomenale Mark Free in formazione, equamente divisa tra
hard cromato e
rock radiofonico? Quelli di Johnny Edwards, impegnati a tentare di recuperare i fasti dello sfolgorante esordio? Quelli della prima
reunion con il valente Kelly Keeling, magari, o quest’ultima incarnazione della
band, qui giunta alla sua seconda prova discografica?
Qualunque siano le vostre valutazioni sono certo che apprezzerete ancora una volta l’enorme classe e l’arguzia compositiva di questi colossi dell’
hard melodico statunitense, intenti, con l’ingresso del sempre strepitoso Paul Shortino, a sciorinare con innata
nonchalance tutti i benefici emotivi di una formula espositiva immarcescibile, distillata enfatizzando l’essenza del più classico e bruciante
feeling blues.
Come già nel lavoro precedente, Appice riscopre con slancio e convinzione il suo nobile passato in compagnia di Beck e Bogert, con i Cactus e con i Blue Murder, e assecondato e dal timbro squisitamente
raunchy e granuloso di Shortino e dai suoi storici
pards in gran spolvero, fornisce una convincente “prova di forza” in quel settore operativo che vede gente del calibro di Whitesnake (tra
ofidi ci s’intende, evidentemente …), Van Halen, Montrose, Dirty White Boy e Mr. Big (assieme agli stessi Blue Murder e ai Rough Cutt, che rivelarono al mondo le doti dell’attuale
vocalist dei nostri …) come plausibili riferimenti, in un concentrato di ruvida, pulsante e passionale materia sonora.
Anche grazie ad una sapiente produzione “fatta in casa” (nel senso che è stata curata dall’eccellente chitarrista David “Michael-Philips” Henzerling, con il contributo di Carmine e di Paul …), “sporca” quanto basta, “II” saprà ammaliare gli appassionati del genere illustrando tutte le sue imponenti qualità espressive, alternando sapientemente fisicità e intensità (“Hell on wheels”, "Knock ‘ em dead”, "When the hammer comes down”, la suggestiva esegesi Zeppelin-
esque “Deep river”), salutare e vibrante divertimento (“Have a good time”, la scapestrata e Van-Halen-
iana “The ballad of Johnny Rod”) e melodie non retoriche ("Take me back” e l’ardore
funky di “The crunch” non lontane da certi Aerosmith, la disinvolta "Running wild”, “Don’t keep me waiting”, infettata dal medesimo veleno di un famoso
Serpente Bianco, e le deliziose digressioni
AOR-eggianti di "Got it comin’” e “We go round”), per un programma in pratica privo di controindicazioni.
La “seconda giovinezza” (o è la “terza”?) dei King Kobra continua nel migliore dei modi, con una grinta, un’ispirazione e una vitalità tali da consentire ai fedeli sostenitori del gruppo di contenere l’eventuale “effetto nostalgia” … un’ora abbondante di
good vibrations per
grandi e
piccini, insomma, o se preferite, semplicemente un gran bel disco di gagliardo
hard-rock blues.