Per i Colour Haze è tempo di dare seguito al clamoroso e monumentale “Los sound de krauts(2003), vero totem di neo-rock psichedelico che aveva garantito loro una certa visibilità mediatica, benchè sempre a livello di ristretto underground. Riproporre un’opera dalle tempistiche così colossali sarebbe stato un’esercizio ripetitivo ed autocelebrativo, quindi Stefan Koglek ha giustamente optato per un profilo più contenuto proponendo una serie di brani come sempre corposi e articolati ma di lunghezza più normale, intervallati da alcuni intermezzi molto succinti quali il vivace strumentale “Did el it” o il cameo romantico “Solitude”, esperimento per voce, chitarra acustica e pianoforte.
Ovvio però che la reale sostanza dell’album consiste nella struttura jammistica delle canzoni, con il timbro ormai inconfondibile del power-trio germanico. Poco meno che favolosa la commistione tra kyuss-ismo ed antico jazz-rock nei nove sensuali minuti di “Love”, che davvero riesce a trasporre in musica l’emozione, la poesia e la magia di questo sentimento primario, e di medesimo livello l’acida morbidezza e le litanie trasognate dell’elettroacustica “Flowers”, retrò-trip seventies di gran classe, mentre “Mountain” sfoggia quella struttura avvolgente “a crescita lenta” che dopo il maestro Homme forse soltanto il trio di Koglek ed i sudamericani Los Natas hanno saputo interpretare con tale qualità lisergica.
Tocco leggero, fantasioso, ispirato, colori sfumati, tecnica elevata ma esibita quasi con pudicizia, agli antipodi del gigantismo spacciato per cerebralità strumentale, i Colour Haze sono creatori di acquerelli delicati e ariosi ma altrettanto concreti e robusti, costituiti più di materia terrena che di visioni di sogno, che spingono l’ascoltatore ad immergersi completamente nel vortice musicale. Talvolta qualche passaggio più rarefatto sfiora l’ambient rock, ma in sottofondo resta sempre una sensazione di forza, una vibrazione d’energia, che ci tiene agganciati senza tedio in attesa dell’esplosione sonica che inevitabilmente arriverà più avanti. Altrimenti non si potrebbe comporre una straordinaria “Peace, brothers & sisters!” di oltre ventidue minuti e farla scorrere con la fluidità di una normale canzone heavy rock, citando contemporaneamente e con grande semplicità i Kyuss, Hendrix, la Allman Brother Band e finanche i Grateful Dead. Assolutamente stupefacente, in tutti i sensi.
Non era facile dare seguito ad un lavoro come quello dell’anno scorso, i Colour Haze vi sono riusciti nella maniera più ovvia, per questo forse la più difficile, ribadendo le caratteristiche che tanto avevano impressionato nel disco precedente. Musica come marea, che cresce impetuosa ed inarrestabile per poi ritrarsi languida e carezzevole, potenza rock ed ipnosi psichedelica in un unico corpo ben amalgamato ed ormai adulto, con sembianze e personalità perfettamente riconoscibili. Magari questa formula a lungo andare mostrerà i suoi limiti, ma l’abilità di farsi guidare dall’istinto, dall’estro del momento, di lasciarsi andare quasi senza freni, sembra comunque non voler passare mai di moda.
Se ancora vi fosse stato il minimo dubbio sul reale valore di questi atipici tedeschi, l’album omonimo ne certifica la classe e l’eccellenza e li conferma tra i protagonisti dell’underground rock Europeo.
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