I
The Wonder Years vengono dalla lontana Pennsylvania e prendono il loro nome da una celebre serie tv degli anni 90 che in Italia era intitolata
Blue Jeans. Avete presente quell'odioso bambino tuttologo che a 10 anni sembrava un vecchio di 70? Io sì e non ne ho un buon ricordo. Sarà per questo che non ho affrontato l'ascolto di
The Greatest Generation con un'attitudine molto positiva e inoltre i nostri sono dediti a un genere in cui è molto difficile uscire dalla massa, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti dove sembra che circolino più band di questo tipo che automobili.
Eh già, ma che fanno questi tizi? Diciamo che possiamo definirli con un termine che va molto di moda negli ultimi anni e che comprende tutto quel nugolo di giovani e non più tanto giovani la cui proposta è un misto tra musica ribelle e commerciale :
pop punk, che non vuol dire mettere insieme i
Bad Religion e i
Take That (anche se sarebbe divertente vedere cosa ne uscirebbe fuori), ma che significa andare a contaminare sonorità più grezze e dirette tipiche del punk con linee vocali più easy e facilmente assimilabili dal grande pubblico. Eretici.
Con quest'ultima fatica discografica i The Wonder Years giungono al loro quarto album, anche se a quanto mi è dato di capire il capitolo in questione dovrebbe far parte di una trilogia che comprende
The Upsides e
Suburbia I've Given You All e che racchiude le vicissitudini del cantante
Dan “Soupy” Campbell, alle prese con problemi di ansia e depressione, apparentemente risolti. A dimostrazione di quanto questo disco sia un po' lo spaccato di una vita comune alle prese con le proprie difficoltà, il titolo della canzone d'apertura è
There, There che è più o meno l'equivalente del nostro 'Vieni qui' quando tentiamo di dare conforto a una persona che attraversa un momento complicato.
The Greatest Generation lascia un po' di amaro in bocca, perché in canzoni come
Passing Through A Screen Door, The Devil In My Bloodstream e
I Just Want To Sell Out My Funeral si intravede una discreta maturità compositiva che apporta elementi decisamente poco comuni che fanno pensare che dietro l'apparente banalità di un songwriting molto scolastico ci siano delle potenzialità che vengono tenute a freno, come se non si volessero varcare i limiti di un genere musicale in cui tutto è molto quadrato e schematico.
Per il resto, sa tutto di già sentito mille e mille volte ancora, con le solite linee vocali alla 'se potessi spaccherei tutto' e i continui stop&go anche se poi andando a vedere il modo in cui il disco è stato accolto nella madre patria qualche dubbio effettivamente sorge. A mio modo di vedere il valore di questo platter varia molto in base a diversi parametri: se amate il genere, siete americani e/o siete giovani ribelli in erba aggiungete pure un punto pieno al voto finale e acquistatelo senza pensarci sopra, se invece siete vecchi come me e legati a generi più elaborati e complessi dategli un ascolto e valutate bene prima di buttare dalla finestra i soldi della pensione.
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