“
Olde, e sai quello che mangi”.
Potrebbe essere questo lo slogan giusto (ma poco accattivante, a dire il vero) per la nuova band di cui mi accingo a scrivere. Una band, quella composta dal polistrumentista
Chad Davis dei poco conosciuti doomster
Hour of 13 e da
Stíofán De Roiste, singer dei fantastici
Celtachor, che giunge all’esordio discografico in punta di piedi, con un approccio decisamente low profile anche da parte della loro etichetta (la
Soulseller Records), quasi a voler ribadire ancor più l’aspetto elitario e altero che permea la proposta del combo.
Il suggestivo artwork di copertina, i titoli e le lyrics dei brani, lo stesso moniker ci conducono senza inciampi verso la corretta contestualizzazione di questo
Gates of Dawn, che si erge a fiero paladino di un black metal volutamente old(e) style, scevro da qualsivoglia contaminazione o volontà innovativa. L’album, in effetti, suona come un sincero tributo ai padri fondatori di un genere ancora in grado di ispirare frotte di giovani musicisti, e che a mio avviso vede, fra i nomi che tutti conoscete,
Darkthrone,
Ophthalamia e primi
Bathory come principali ispiratori del duo.
Non attendetevi, dunque, chissà quali sorprese dall’ascolto di questi 50 minuti di musica, ma “solo” glaciali riff a profusione, blast beat come se piovesse, cattiveria e aggressione (quasi) senza sosta. Giusto un paio di intro atmosferiche (anch’esse dal sapore molto retrò) e alcune sporadiche melodie di chitarra non sono sufficienti ad annacquare una sostanza fatta di canzoni semplici ma efficaci, suonate in modo sporco come il genere impone e pervase da un gradevole pathos di matrice epica.
Non sono riuscito a rinvenire informazioni in tal senso, ma è mia distinta impressione che, a partire dal sesto brano in scaletta,
A Desolate Throne in the West, i suoni si facciano meno nitidi, l’esecuzione divenga più rozza e, in generale, l’architettura dei brani si semplifichi. Non vorrei incorrere in una colossale topica, ma sembra quasi che i primi cinque pezzi siano stati composti e registrati più di recente, e che i successivi cinque provengano da un precedente demo, qui riproposto.
Comunque sia, segnalo che la qualità media, se non vertiginosa, resta comunque apprezzabile, con la presenza di momenti più che discreti in
Under the Banner of the Wolf e
The Death Throes of Empire. Davvero incisivo lo screaming del già citato
De Roiste, la cui interpretazione raggiunge notevoli picchi d’intensità in episodi quali
13 Winters o
Our Once Forgotten Empire.
Trovo non resti molto da dire: se, come il sottoscritto, amate ancora il black metal senza fronzoli della prim’ora, scoverete senz’altro motivi d’interesse nella proposta degli
Olde, che tuttavia difficilmente sapranno innalzarsi oltre la statura di onesta band di nostalgici rievocatori di gloriose epoche passate.
Non imprescindibili, ma godibili nondimeno.
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