“A matter of time” è, per quanto mi riguarda, uno dei dischi più sorprendenti degli ultimi (e dei “penultimi”, a dire la verità …) tempi e a realizzarlo non sono dei musicisti “emergenti”, animati da velleità “destabilizzanti” in un
rockrama considerato eccessivamente allineato e ortodosso, ma un terzetto di “veterani” evidentemente ispirati da una personalità artistica talmente ricca, vitale e urgente da non poter essere canalizzata in una semplicistica rilettura di stilemi ampiamente consolidati, lasciando trasparire un
gagliardo desiderio di fuoriuscire dai binari di quell’uniformità sonora che stritola la maggior parte della scena contemporanea.
L’esperienza e la cultura di personaggi come Enio Nicolini (The Black, UT, Unreal Terror, Akron), Giuseppe Miccoli (ex Requiem) ed Eugenio Mucci (ex Requiem, Akron, Insider) rappresentano l’inevitabile “valore aggiunto” di un suono davvero conturbante e “disturbante”, in grado di mescolare l’arcana oscurità del
doom, il senso di mistero “glaciale” di certa
new-wave, la forza visionaria della
psichedelia e pure le pulsazioni imprevedibili e “rumorose” dell’
alternative, in un frullato di referenze (Black Sabbath, Prong, Saint Vitus, Joy Division, Primus, Cop Shoot Cop, Killing Joke, primi Motorpsycho, Helmet, Jane’s Addiction, Beehoover …) che non intacca, però, il brillante e peculiare carisma della
band.
La mancanza di chitarre e il relativo spostamento del fulcro armonico sul basso e sulla ritmica, rende gli
Sloe Gin, questo il nome dell’autorevole progetto, un “prodotto” a “lenta assimilazione”, per il quale sarà verosimilmente necessario un pizzico di supplementare “concentrazione” uditiva e tuttavia sono convinto che, una volta entrati in “contatto” con il tenebroso universo evocato dal programma, sarà poi piuttosto difficile sfuggire ad una forma di aggressione cerebro-emozionale di notevole intensità.
All’opera di soggiogamento contribuisce fattivamente la voce ieratica, rabbiosa e inquietante di Eugenio Mucci, il quale interpreta la funzione di
gran cerimoniere con la consueta abilità e disinvoltura, sfruttando sfumature timbriche tra Ozzy, Farrell e Hamilton, intridendo di lirismo nero, solenne e caustico un caleidoscopio sensoriale che assume spesso le sembianze di un incubo ad occhi aperti.
Inutile sviscerare nel dettaglio i singoli episodi di quest’audace raccolta di note, mi limiterò a citare i sussulti rancorosi di “Lord of snowflakes”, le nervose destrutturazioni di "My dog is beautiful”, “The fugitive”, “Bring on the lion” e dello strumentale “cosmico” “Digital space wave”, la discesa catacombale di “Spiritual coma”, “Islero” (un brano di enorme suggestione, veramente …) e “Don't be afraid of the dark”, le cadenze
dark e sciamaniche di “Dreams in a jar” e "Decline and fall of progress and illusions” e quelle recitative di “Clouds floating in a blue sky”, lasciando che sia poi il
musicofilo, con “comodo”, ad approfondire tali sommarie indicazioni, nella speranza che possano stimolare quell’innata curiosità che dovrebbe essere parte integrante di un ruolo che invece ultimamente sembra spesso vissuto in maniera troppo superficiale.
Forse con l’innesto di altri strumenti gli Sloe Gin potrebbero diventare più “fruibili” e godere di una maggiore visibilità, e ciò nonostante personalmente considero l’esplorazione di “A matter of time” un’avventura esaltante, oltre che la dimostrazione che
estro e
mestiere possono tranquillamente convivere e concepire risultati molto appaganti.