C’erano una volta i Khanate, una delle tante creature degeneri concepite dalla mente di Stephen O’Malley (se non sapete di chi e che cosa si stia parlando e vi interessa anche solo vagamente la musica “estrema”, fatevi un favore, andate a recuperare un po’ di dischi). Musica, o meglio, suono che si faceva dolore e angoscia, interpretazione della deviazione esistenziale di una società fatta di troppe coercizioni e troppi falsi dogmi. Nel 2009 il progetto smette di esistere e, al contempo, il vocalist Alan Dubin fonda, assieme ad altri quattro elementi, gli Gnaw, quasi a voler riprendere, espandere e portare avanti il concetto di sofferenza e ossessione in musica.
A quattro anni di distanza dal debutto, arriva Horrible Chamber, un secondo capitolo che costituisce una vera e propria prova di forza per chi s’approccia all’ascolto.
La durezza delle soluzioni sonore, la rarefazione della ritmica o l’assenza pressoché totale di melodia non costituiscono i soli scogli alla fruizione serena di questo disco, anzi, a ben vedere risultano un elemento abbastanza connaturato in determinate proposte musicali cui potrebbero appartenere gli Gnaw; la vera cifra di Horrible Chamber sta nella sua natura genuinamente sofferente. Se il malessere profondo, l’instabilità, il dubbio lacerante potessero avere un suono, probabilmente sceglierebbero d’incarnarsi nei cinquanta minuti di questo disco.
Che si tratti di concetti sonori al limite della serialità e del parossismo come nell’opener Humming, costituita da parole urlate e due note dissonanti di pianoforte, oppure da episodi più strutturati come Of Embers o Worm, memori delle passate esperienze dei componenti, il risultato non cambia: l’obiettivo resta sviscerare a nude mani qualcosa di terribilmente truce e ossessivo che si cela dentro all’animo umano.
La sensazione di discesa verso gli inferi diventa ossessiva e claustrofobica In brani come Widowkeeper o nella lunga e riverberante title track, che chiude un delirio con echi propri di una tradizione musicale capace di urlare un disagio lancinante, radicato e troppo a lungo sopito, espresso con frasi tanto semplici e ossessive da divenire una specie di preghiera oscura, una colonna sonora all’inconscio più temibile che, in questo modo, si cerca di placare.
“This is where you end up...I want out”.
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?