Lo so, lo so: con ogni probabilità vi sarete stupiti per il fatto che la nuova fatica di
Ihsahn non sia stata inserita nei Top Album, così come avrete già notato il voto tutt’altro che astronomico ad essa appioppato. Vi assicuro che non è stato facile maturare una simile decisione per il sottoscritto, cresciuto divorando i primi cd degli
Emperor (il sublime
Anthems to the Welkin at Dusk rimane, a tutt’oggi, il mio album black metal preferito) e accanito sostenitore del genio di Notodden. Tuttavia, valutando con distacco critico il suo quinto solo album, non ho potuto fare a meno di inserirlo nell’ampio (e triste) catalogo nominato “cocenti delusioni partorite dai propri idoli musicali”.
Il titolo
Das Seelenbrechen (credo la traduzione sia grosso modo “ciò (o colui) che spezza l'anima”, ma non scommettete mai sul mio tedesco), attinge ispirazione da un aforisma di Nietzsche, secondo cui l’arte, nella sua forma più pura, non è buona né cattiva, ma solo arte, per l’appunto. Pur dichiarandomi d’accordo col baffuto filosofo, mi permetto di postillare che l’arte, per quanto incontaminata, può comunque risultare tediosa. Purtroppo, è esattamente questo il difetto che affligge l’ultimo parto di
Vegard Sverre Tveitan.
A livello puramente teorico, l’evoluzione sonora intrapresa da
Ihsahn non fa una piega: dopo aver forgiato un geniale ibrido di black, avant-garde, jazz e prog, questi decide di destrutturarlo, utilizzando le medesime influenze e sonorità ma convogliandole in composizioni che rifuggono sdegnosamente ogni catalogazione, ogni velleità di adesione a un canone precostituito, ma soprattutto ogni organicità. Parola d’ordine: improvvisazione. Il norvegese ha calcato molto, in sede di presentazione del disco, sull’assoluta libertà che ha contraddistinto il suo approccio al songwriting.
A livello pratico, tuttavia, il pur apprezzabile afflato sperimentale non conduce agli esiti sperati, dando vita a pezzi spesso e volentieri ingarbugliati, eccessivamente criptici, davvero di scarsa fruizione. Allo stesso modo, l’esperienza complessiva risulta a dir poco frammentaria: l’album è brutalmente disomogeneo, le canzoni paiono del tutto slegate l’una dall’altra, e poche di esse sono in grado di lasciare il segno.
Collegandomi a ciò, segnalo che il platter spara subito le cartucce migliori, alimentando nell’ascoltatore un ottimismo che si rivelerà illusorio:
Hiber ricorda da vicino le atmosfere dell’ottimo predecessore (
Eremita, 2012) grazie agli splendidi arrangiamenti e alle inquietanti atmosfere. La successiva
Regen, dal canto suo, ha saputo estasiarmi: dopo un incipit insolitamente soft (in cui voce pulita e pianoforte dipingono nostalgici scenari), il pezzo prorompe in un crescendo da brividi, fra maestosi cori e guitar solos. Regina indiscussa del platter, a mio avviso.
Dopodiché… cominciano i dolori:
NaCi si sostanzia in un prog rock gradevole ma poco incisivo, mentre ho trovato addirittura stucchevoli (mai avrei creduto di utilizzare simile aggettivo in questa sede!) le melodie alla
Depeche Mode di
Pulse.
La seconda metà dell’album, poi, fa ancora peggio, rivelandosi un autentico pastrocchio senza capo né coda: spoken word, rumorismo alla
John Zorn, parentesi introspettive azzoppate dall’eccessiva ripetitività, pretenziose digressioni free jazz… Si salva giusto la fase conclusiva di
M, che sfoggia un bell’assolo gilmouriano e un coro che sembra provenire da
The Division Bell dei
Pink Floyd.
Tutto il resto, come cantava il compianto Califfo, è noia.
Di tempo, a questo disco, ne ho concesso eccome, ma la sua imperforabile corazza di spocchioso astrattismo mi ha letteralmente lasciato alla porta, al freddo. Forse sarò limitato io, ma per la prima volta un’opera partorita da
Ihsahn mi ha lasciato indifferente e distaccato.
La dura verità è che, in questo 2013, potrete trovare album che meritano la vostra (e la mia) attenzione più di
Das Seelenbrechen… per quanto mi costi ammetterlo.