Sono sempre stato affascinato dalla riscoperta delle “lost gems” del passato, dalla rivalutazione a posteriori di oscure formazioni consegnate all’oblio solo a causa di circostanze “sfavorevoli” o di poca scaltrezza, così come ho sempre istintivamente accolto con fiducia, valutandolo come la conseguenza di un “atto di giustizia”, il loro ritorno all’attività, rivolto a reclamare finalmente almeno un briciolo di quella doverosa attenzione purtroppo mancata nel momento topico della loro parabola artistica.
La palese propensione della discografia contemporanea a questo tipo di cose, fino a renderle un fenomeno “seriale”, ha inevitabilmente finito per sminuire il valore complessivo di tali operazioni, ma sono certo che l’ascolto di “The dark place”, il quarto album dei
Legend (da non confondere con i numerosi omonimi, tra cui i maliosi
folk-prog rockers esoterici capitanati da Debbie Chapman …) in oltre trent’anni di carriera, v’indurrà, nello specifico, a giudicare con favore un interesse per certi suoni ormai divenuto quantomeno “sospetto”.
Autori di un paio di apprezzati album negli anni ottanta, tornati alla “vita” nel 2003 con l’ottimo “Still screaming”, i “leggendari” inglesi anche con questo nuovo lavoro faranno la felicità di chi ama la trascrizione più fosca e progressiva della
NWOBHM, quella, per intendersi, rappresentata così efficacemente da valorosi
outfit come Omega, Saracen, Demon e Shiva.
Come si può vedere, tutte
bands di culto, in realtà, troppo “sensibili” e sofisticate per conquistare un successo ampio e capillare, fatalmente destinate, anche oggi in cui il
british metal sembra riconquistare il proscenio, ad un pubblico “selezionato” (lo stesso dei Threshold, per esempio, un gruppo meritevole, invece, di consenso incondizionato …), che troverà nei Legend un’analoga capacità di fondere fraseggi taglienti, epica caligine e raffinatezze sonore, in una sorprendente alchimia tra Black Sabbath, Genesis, Budgie, Angel Witch, Pink Floyd e Jethro Tull.
In questo modo, se vi sentite parte integrante della succitata
élite, non potrete esimervi da rimanere impressionati dalla potenza evocativa e dal
riff catalizzante della
title-track, dal crescendo emotivo di “Red”, dalla leggiadria
doom-esque di “Halls of the dead” o ancora dall’intensità
proto prog-metal di “The watcher”, un brano che potrebbe piacere persino agli estimatori di certi Opeth o dei Pain Of Salvation.
La nuova registrazione di “Taste of life” (recuperata dall’esordio "Legend") impone all’astante un viaggio nei
mid-seventies, tra visioni liquide e squarci di cupa inquietudine, mentre il secondo ripescaggio “nostalgico” (stavolta dal demo del 1983), denominato "Questions and answers”, lo costringe a spostarsi addirittura qualche anno più indietro, in un pezzo che si manifesta, a tratti, con le sembianze di una versione particolarmente energica e volubile dei CSN&Y.
All’appello mancano ancora il vivace
hard-rock (autobiografico?) “Too late to be a hero”, i seducenti misteri di ”Monster on the street” e l’irresistibile richiamo sinistro di “Burn with your demons” (entrambi con qualcosa dei primi Masters Of Reality nell’impasto …), l’afflato eroico di “Paragon” e il
groove bluesy di “Play your game”, sigillo ad un disco di notevole valore, intriso di fascinosi chiaroscuri e di una palpitante forza espressiva.
Sosteneteli ora, dunque, perché il rischio è che “spariscano” un’altra volta, affossati dall’ennesimo peccato di “criminale” superficialità commesso dall’uditorio metallico … non consentitelo e dimostrerete che qualche volta è vero che la “storia insegna”, anche (o solo …) nella futilità delle faccende musicali.