Anche per Glenn Danzig si avvicina rapidamente la soglia fisiologica dei 50 anni (nato nel ’59), un’età nella quale ci si rende ben conto di avere molti più ricordi alle spalle che speranze per il futuro. Malgrado l’ex-Misfits mantenga inalterati i suoi atteggiamenti da trucido figlio dell’Ombra, circondato magari da procaci play-mates come da foto del booklet, le stagioni sono passate non senza lasciare segni tangibili sia sulla forma fisica che su quella musicale del vocalist Americano. Un discorso perfettamente applicabile all’ultimo lavoro di Danzig, album qualitativamente squilibrato.
Il sound si conferma un dark-metal abbastanza compassato, con predilezione per tempi medio-lenti e melodie che dovrebbero risultare enfatiche e conturbanti. Il chitarrista Tommy Victor, già mente dei Prong, si esprime con lineari riffs nitidi e scarni ma non sempre la sua semplicità riesce ad essere anche graffiante, mentre l’atmosfera tende costantemente al cupo-gotico nella speranza di offrire stimolanti sensazioni di tragica sensualità.
Il risultato complessivo è contradditorio, la voce di Danzig non è certamente incisiva come un tempo ed anzi in alcuni brani il cantante pare quasi limitarsi a declamare il testo in modo flebile, con un effetto che invece di drammatico ed oscuro finisce con l’essere molle e soporifero, vedi la terribilmente lagnosa “Skull forrest” o la funerea e moscetta “My darkness”.
L’influenza Sabbathiana sullo stile di Danzig è cosa risaputa ed anche quest’album presenta le sue pronunciate venature doomy, ma invece degli spessi e torridi suoni hard-seventies vengono usati moderni tagli asettici ed affilati, roba tutt’altro che originale ma perlomeno dotata di un po’di nerbo così da rianimare un poco canzoni altrimenti troppo fiacche come la sferragliante “Skincarver”, la title-track o “Night, besodom”. Quando finalmente il corpulento vocalist riesce a tirare fuori quel carico di energia che ancora gli è rimasta qualche colpo dignitoso si materializza, ad esempio il discreto mid-tempo “1000 devils reign”, la truce “When we were dead” che malgrado il sussurro vocale ha un buon riff-omaggio a Tony Iommi, soprattutto la conclusiva “Black angel, white angel” tosta ed orecchiabile e all’altezza del Danzig di un tempo.
Disco di mestiere, qualche episodio valido e parecchie battute a vuoto, se fosse stato prodotto da una sconosciuta band di ragazzotti scivolerebbe nell’oblìo in pochi istanti. Invece il buon Danzig si regge sul carisma acquisito in passato e sull’appoggio dei fans di vecchia data, che non mancheranno di acquistare e dare lustro al mediocre “Circle of snakes”.
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