Mmmm … “I will survive” … non si preoccupino i
fans dei
Seventh Key (e quindi, per estensione, della buona musica, se me lo consentite …), Billy Greer e Mike Slamer non hanno improvvisamente subito il fascino della
disco-soul e nemmeno hanno intenzione di sostenere la presa di coscienza femminile attraverso lo “storico” brano di Gloria Gaynor, divenuto negli anni pure una sorta d’inno dedicato al superamento delle avversità e una celebrazione della diversità.
La “sopravvivenza” di cui parlano i nostri è verosimilmente quella di un gruppo di veterani straordinario, assente da ben otto anni da una scena discografica sempre più convulsa, che “brucia” i suoi interpreti con velocità vertiginose e in cui è troppo facile essere sostituiti dall’ennesima
new sensation di turno.
Chi conosce l’edificante storia degli americani (Kansas, City Boy, Streets, Steelhouse Lane, The Sign, Native Window …) e i loro due stupendi precedenti dischi in studio sotto la nobile
griffe della
Settima Chiave, non potrà di certo averli “dimenticati” ed ecco che questo ritorno all’attività apparirà per costoro come una di quelle belle circostanze emozionali dell’esistenza umana che è ancor più gratificante provare dopo averle attese così a lungo.
Eh già, perché il terzo lavoro (quarto, con il pregevole “Live in Atlanta” …) dei Seventh Key è un altro gioiello prezioso da aggiungere ad ogni collezione
pomposa che si rispetti, una nuova raccolta di scenari sempre adescanti e sofisticati, in un crogiolo denso di grazia,
pathos, sentimento e vitalità.
Inutile citare plausibili referenze quando è il
curriculum stesso a fornire le indicazioni maggiormente significative di una
band che con i suoi due eccezionali
mastermind ha contribuito a “creare” e diffondere quel suono che fa dell’estro, della magniloquenza e della melodrammaticità le sue armi primarie di “seduzione globale”, lasciando poi che tecnica sopraffina, entusiasmo, esperienza e professionalità completino l’opera di soggiogamento.
Fin dalla
title-track e
opener del disco si capisce istantaneamente che la folgore del
pomp-rock è stata scagliata dritta verso i nostri sensi senza alcuna possibilità di scampo, e quando arriva lo scontro tra i
riff netti e le armonie estetizzanti esposto in “Lay in on the line”, le certezze aumentano ulteriormente.
Con “I see you there”, una sontuosa contrapposizione tra luce e ombre, la produzione di dopamina prosegue copiosa, “It's just a state of mind” e “The only one” ottengono gli stessi risultati tramite l’incisività di una melodia a “presa rapida”, mentre i brividi cagionati da “Sea of dreams” ricordano da vicino (anche per la presenza del magico violino di David Ragsdale) quelli procurati in molteplici occasioni da una “certa” formazione di Topeka.
Classe e freschezza melodica fomentano “Time and time again”, “When love sets you free” è una gemma di rara purezza armonica, “Down” ha il
blues nel sangue e il
prog nel cervello, “What love's supposed to be” è una ballata ultra-suggestiva dalle struggenti vibrazioni emozionali e “I want it all” chiude l’albo in una maniera simile a com’era stato aperto, ponendo sulla ceralacca il marchio indelebile dei Seventh Key, splendidi “sopravvissuti” e ancora una volta assoluti protagonisti della scena melodica internazionale.
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