In epoche di comunicazione “globale” (e altrettanto “casuale”, mi sa tanto …) e di febbrili stagflazioni discografiche, desidero sottoporre all’attenzione dei gloriosi utenti di
Metal.it una
band che il sottoscritto ha scoperto di recente, non troppo “chiacchierata”, almeno dalle nostre parti, eppure degna di notevole considerazione (tanto da meritarsi una citazione nella mia
playlist annuale, mica “robetta”,
eh …).
Si chiamano
The Temperance Movement, provengono dalla "perfida Albione” e incidono per la storica Earache Records, un tempo antesignana in settori decisamente più “estremi” e innovatori, ma già da un po’ impegnata nella rivalutazione di ambiti “classici” come l’
heavy (in periodi non eccessivamente “sospetti” … ricordando, ad esempio, il ruolo “pionieristico” della
compilation “Heavy metal killers”), il
thrash o l’
hard-rock.
E proprio di quest’ultimo si “occupa” con considerevole cognizione di causa il nostro quintetto, dimostrando che il “fiuto” dell’etichetta britannica non si è
intasato dopo il successo dell’
affaire Rival Sons.
Ebbene, non siamo ancora probabilmente a quei livelli di “penetrazione emotiva” e, tuttavia, l’ascolto di quest’omonimo
album di debutto (all’attivo anche un
Ep dal titolo “Pride”, il cui contenuto viene qui integralmente recuperato …) del
Movimento consente di rilevare una capacità non comune nel trattare la materia di riferimento, esibendo al contempo un’assoluta “autenticità”, in un ambito ormai troppo affollato per non suscitare qualche
piccolo timore di “opportunismo”.
Con le immarcescibili didattiche di Free, Led Zeppelin, Little Feat, CSN&Y, Rolling Stones, The Faces, Creedence Clearwater Revival e Lynyrd Skynyrd ben metabolizzate e un approccio che ricorda i Black Crowes o i sottovalutati Thunder (e ci metto pure i dispersi The Stone Electric …), i The Temperance Movement vivono con impressionante naturalezza tutte le peculiarità tipiche dell’
hard-blues “sudista” e le trasmettono all’astante senza esagerati filtri “formali”, non dando praticamente mai l’impressione di farlo assistere ad una (magari pur) riuscita forma imitativa.
C’è molta pacatezza e raffinatezza nella musica del gruppo, e anche se forse tali attributi potranno limitarne leggermente l’impatto istantaneo, ritengo questa sorta di aleggiante “indolenza crepuscolare” una “forza” e non una “debolezza”, nella migliore tradizione del
rock rurale più vellutato e avvolgente.
Il tutto senza far mancare, tra l’altro, il giusto contributo di vitalità espressiva, attraverso un campionario capace d’enfatizzare, a seconda dei casi e con la medesima disinvoltura, intensità (“Only friend”, “Ain’t no telling”, “Morning riders”), solarità (“Be lucky, “Know for sure”), dinamismo (“Midnight black” e “Take it back”) e viscerale passionalità ("Pride”, "Chinese lanterns”, "Lovers and fighters”, “Smouldering” e “Serenity”).
Del resto, con una voce come quella di Phil Campbell, che dosa con miracolosa accuratezza calore, granulosità e pastosità, era veramente difficile fallire, e se poi i suoi sodali sono all’altezza di cotanta “educazione laringea” e le canzoni con cui esibire le proprie doti individuali sono globalmente di considerevole spessore, appare evidente quante siano le possibilità d’affermazione di questi valorosi “nostalgici”.
Sono certo che ne sentiremo ancora parlare, in particolare se consolideranno ulteriormente un processo di costruzione della personalità artistica già in fase piuttosto avanzata.
Per ora, un’importante promessa destinata alla soddisfazione di tutti gli estimatori delle “radici” del
rock.