Singolare l’idea del compositore milanese
Marco Burgatto: fondare un progetto che porta il suo nome, scrivere il materiale di questo “Rock” e poi consegnarlo a musicisti di affidabile esperienza per la sua realizzazione.
Ne scaturisce un dischetto di
rock (ma guarda un po’ …) ad ampio spettro, tra
hard 70’, qualche digressione
prog e un pizzico di attitudine cantautorale, enfatizzato dall’uso della madrelingua.
Il prodotto, così, finisce per ricordare un po’ la P.F.M.
ottantiana, gruppi come Severance e Cappanera o ancora, volendo, una versione particolarmente grintosa dei Nomadi, complice anche l’approccio vocale di Felice Restelli a tratti vagamente Daolio-
esque.
Il risultato è nell'insieme abbastanza gradevole, le linee melodiche sono piuttosto semplici e piacevoli, i testi non sconvolgono per
illuminazione poetica e tuttavia non appaiono fastidiosamente banali, offrendo talvolta buoni spunti di riflessione (“L’impero”, “Disperso nel vento”, …) e il tutto suona amabilmente “datato”, alimentato da una certa simpatica
naiveté complessiva che, però, è bene sottolinearlo, difficilmente potrà conquistare ampie (si fa per dire, visti i tempi …) platee.
Il timbro granuloso di Restelli e il suo peculiare stile interpretativo, quasi narratorio e privo di particolari variazioni, rappresenta, poi, un’incognita importante nell’ambito della “ricezione” del Burgatto’s Project da parte del pubblico, affidando verosimilmente l’intera questione ad un classico caso di “prendere o lasciare”.
Personalmente “Rock” non mi è dispiaciuto, soprattutto nella rigorosa “Per la libertà”, nella mordace “Realtà illusoria”, nella fosca “L’impero” o ancora nelle malinconie di “La promessa” e “Disperso nel vento”, testimonianze di un modo schietto e viscerale di fare musica, condiviso da autore ed esecutori (menzione speciale per il significativo apporto delle tastiere di Alex Cammeo) nello specifico privi di enormi “ambizioni” magari, eppure encomiabili per come vivono con intensità e autenticità il loro essere artisti.
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