Il tempo passa per tutti, ed anche i
Mustasch appaiono in foto privi ormai di quell'arroganza giovanilistica che esibivano ai tempi di “Parasite”, quando sembravano la versione scandinava dei Metallica di “Load”. La loro estetica appare un po’ imbolsita, ed anche il nuovo disco non raggiunge la brillantezza del passato.
Solo a tratti la band si lascia veramente andare, esprimendo quel cipiglio arcigno ormai caratteristico (“From euphoria to dystopia", "Borderline”), mentre spesso compaiono arrangiamenti orchestrali che finiscono per diventare prevedibili e talvolta un po’ stucchevoli. Le armi principali dei Mustasch rimangono la grande capacità di essere semplici, diretti e fortemente accessibili, cosa che li ha portati al successo in patria, e la voce di Gyllenhammar, sempre potente ed aggressiva da vero rocker dannato.
L’influenza di Hetfield e soci si è ormai diluita, garantendo al quartetto svedese una propria identità ed una onesta coerenza col proprio stile. Solo che questo lavoro mostra dei passaggi a vuoto, vedi la lunga ballata “All my life” o la fiacca “I hate to dance”, insieme ad una atmosfera dal vago sentore di routine.
Un calo anche prevedibile, per una formazione sulla scena ormai da una dozzina d’anni, la quale non ha mai preteso di essere altro che una buona heavy rock band.
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