Lugubri rintocchi di campana, insieme ai tuoni l’elemento di contorno più sfruttato in ambito doom, aprono il terzo album dei Thunderstorm, alfieri della piccola scena oscura nazionale. Se l’intro appare forse un po’ scontato, lo stesso non si può dire di tutto il resto del lavoro, che anzi denota ulteriori progressi del trio bergamasco e ne sancisce la matura e definitiva affermazione.
Tornati con convinzione alla struttura triangolare rinunciando all’apporto della seconda chitarra, i Thunderstorm ampliano le atmosfere del precedente “Witchunter tales” muovendosi in una direzione maggiormente “seventies” facendo in modo che l’influenza di giganti quali St. Vitus, Trouble, Obsessed, agisca da contrappeso alle vibrazioni epico-melodiche di matrice Candlemass così preminenti fino ad oggi.
Più roccioso e diretto ma pur sempre elegante e limpido, il trio mette ben in chiaro di essersi formato all’antica scuola doom tradizionale ma di avere la mente concentrata sul presente, evitando una scrittura troppo calligrafica e derivativa. Davvero notevole la spinta hard’n’heavy che rafforza “Forbidden gates”, con una prima parte aggressiva e tirata che farebbe invidia a gente come Wino Weinrich o Bobby Liebling, e ruvida il giusto anche “Hidden face” che sfiora le cadenze di certo metal primi anni ’80.
Questa vena grintosa culmina nella cover di “In a gadda da vida”, uno dei brani storici per eccellenza nel campo dell’hard rock a tinte scure. La versione Thunderstorm del capolavoro degli Iron Butterfly si concentra sull’essenza del brano, tralasciando le appendici psichedeliche ed esaltandone invece la componente notturna carica di minacciosi presagi. Un’interpretazione intelligente e passionale che vede anche una maggior presenza della fase solistica, forse fin troppo trascurata in passato. Si nota che il gruppo ha lavorato parecchio su quest’aspetto, e pur senza scadere nel plateale Bellan arricchisce i brani con brevi ed ordinati assoli, vedi il finale della greve e sfibrante “Narrow is the road” doom-ballad esemplare per il suo potente impatto di drammatica malinconia.
Non bisogna infatti dimenticare che la principale forza dei Thunderstorm si esprime nelle atmosfere plumbee e severe, che la band sà interpretare con rara intensità. “Black light” è un magnifico crescendo lento ed imperioso secondo i migliori canoni del classic-doom, mentre “In my house of misery” ruota intorno ad un bel riff marmoreo di stampo Sabbathiano a sostegno di un’elegante linea vocale ombrosa ed intimista.
E’ indubbio che la varietà di soluzioni proposta in quest’album sia notevolmente superiore rispetto al passato, dimostrazione di un’accresciuta personalità e di un lavoro accurato nella stesura delle canzoni. Impegno premiato dalla perfetta riuscita di un lavoro che se fosse uscito in un periodo meno florido per il settore doom, avrebbe fatto gridare al miracolo. I Thunderstorm devono accontentarsi di una valutazione largamente positiva e sono certo sapranno regalarci molti altri cupi brividi come in questo ottimo “Faithless soul”.
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