Meglio sgombrare il campo da equivoci: non ho alcuna preclusione nei confronti delle espressioni musicali più sfacciatamente derivative; al contrario, apprezzo l’onestà intellettuale di chi suona la musica che ama senza la minima volontà d'innovare o di risultare originale ad ogni costo.
Svolte simili premesse, non posso che guardare con benevolenza al revival thrash, fenomeno trattato con spocchiosa freddezza dalla critica metallica più snob e troppo spesso liquidato con frasi tipo: “Ah, queste cose le facevano già (e meglio) gli
Exodus nel 1985!”
Piuttosto che enunciare l’ovvio, credo sarebbe più costruttivo analizzare un gruppo, o un album, avendo ben chiaro in mente ciò che da essi è lecito attendersi.
E cosa ci si può aspettare da una giovane band che decide di chiamarsi
Zombie Lake e che titola il proprio debut
Plague Of The Undead?
Sarò di bocca buona, ma non pretendevo certo un capolavoro d’introspezione, ricerca e raffinatezza; semplicemente, mi sarebbero bastate attitudine, un delizioso feeling retrò dal retrogusto marcescente e, perché no, una sana dose di divertimento.
Ahimé, nulla di tutto ciò ho rinvenuto nei solchi del cd…
Il combo americano/svedese ci dimostra come le operazioni nostalgia costituiscano materia più spinosa di quanto potrebbe apparire: seppur corretta sotto il profilo filologico, la loro reinterpretazione del bel thrash che fu mi ha parecchio deluso.
Attingendo un po’ dal sound proveniente dagli States (penso a
Possessed e
Slayer) e un po’ dall’anima marcia e sguaiata del filone tedesco di metà anni ’80 (primi
Sodom in testa), gli
Zombie Lake confezionano un prodotto che si trascina stancamente, bolso e privo di guizzi, proprio come farebbero i morti viventi evocati dal loro immaginario.
Ben poco funziona come dovrebbe in
Plague Of The Undead: passino le carenze esecutive (del drummer in particolare), passi la povertà dei suoni, ma non si può transigere sull’assenza pressoché totale di fascino, presa e ispirazione delle composizioni.
Né posso esimermi dal segnalare la sinistra mole di riff scontati e innocui (peccato mortale nel genere di cui si discute), di ritornelli a dir poco involuti nella loro scarna ripetitività (
Blood! Blood! Blood! e
Blessed Are The Dead dovrebbero chiarirvi le idee in proposito) e di assoli tutt’altro che indimenticabili (
Flesh For Frankestein e
Brain Frenzy ne soffrono in particolar modo).
Difetti numerosi e gravi, che affogano il disco in una pozza di mediocrità dalla quale sarà arduo emergere. E non basteranno certo un paio di pezzi passabili ma nulla più come
The Cemetery o
War Of The Worlds a condurre gli zombie fuori dal guado.
Chiunque ricordi i tempi delle superiori (se ancora le frequentate, beati voi) saprà fin troppo bene che anche copiare è un’arte. Un’arte che, ahimè, i nostri quattro amici lacustri non hanno ancora padroneggiato.
Per ora bocciati.
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