D’ora in poi se vi dovessero chiedere il nome di una band tosta, casinista, eccitante, sconvolta, tanto semplice e spontanea quanto brava ed originale, che sappia suonare alla grande il vero rock duro, quello acido e bastardo come lo facevano tanti anni fa, uno di quei nomi che dovrebbe essere sulla bocca di tutti al posto del solito pattume moscio ed invece è regolarmente conosciuto solo dai pochissimi cultori dei gruppi “da birreria”, allora mostrate di essere veramente competenti e fate il nome dei…vi lascio indovinare.
Secondo album per il trio di capelloni Britannici che viene pubblicato, evidenziamolo con un piccolo moto d’orgoglio nazionalistico, dalla nostra piccola Beard of Stars, la quale ha colto con arguzia l’opportunità di assicurarsi una formazione dalle enormi potenzialità.
Non c’è più l’allampanato drummer Richard Guppy, sostituito dal truce ex-Josiah Billy Darlington, ma ciò che davvero conta è la conferma di quel formidabile sound heavy-fuzz ed ultra-psych che ci aveva entusiasmato al loro debutto. Un tiro esplosivo che non è stoner ma piace un sacco ai neo-freaks cresciuti a pane e Fu Manchu, non è precisamente hard e nemmeno bluesy ma si genera da queste basi e rivitalizza i vecchi rockers avvizziti nella nostalgia per Blue Cheer e Mc5.
Nessun grande segreto tantomeno alchimie misteriose, soltanto un’abile applicazione delle regole basilari del rock: estrema energia, massimo volume, violente distorsioni, carnalità adrenalinica ed una pioggia di magie solistiche di una lead-guitar che torna ad essere l’assoluta protagonista grazie all’istinto ed al trasformismo, come hanno insegnato i lontani padri di questa musica.
Redfern è uno che ha studiato bene la lezione, è capace di azzannare con la ferocia di un mastino quando è tempo di spumeggianti ritmi heavy-garage come quelli pesanti e muscolari di “Just wanna rock”,”Double neat” o della travolgente title-track, torridi brani che amalgamano in modo ruspante attitudine jammistica e concretezza melodica ricca di groove, ma è altrettanto pronto a sfoggiare toni più vellutati ed onirici nelle spire narcotiche di “Trampus” o nella vampata retrò-hard al centro della complessa ed imponente “Rok orl night”, tra riffs al fulmicotone ed assoli orgiastici. I Gorilla potrebbero già accontentarsi di questo, un bel sound vintage potente e personale con passaggi roboanti e spesse nervature acide, invece superano ogni aspettativa mettendo allo scoperto quell’animo psichedelico-progressivo soltanto in parte sviluppato nell’album d’esordio.
Fantastiche le atmosfere space-trippy di “Vesuvius” e “Oaken mind”, entrambe in possesso di un’arsenale completo di ordigni psych, dagli echi cosmici ai romantici sospiri del flauto, dalle improvvise fiammate metalliche ai dolci profumi settantiani del mellotron, che ne fanno due mirabili mini-opere con la grazia, la leggerezza e l’eleganza del miglior prog-rock dell’epoca d’oro. In certi passaggi di queste canzoni sembra che i Gorilla siano sulle stesse frequenze fumose e narcolettiche dei Dead Meadow, ma a differenza del trio di Washington le loro ripartenze sono eruzioni incontenibili di solismi allucinogeni e feedback da paura, una miscela che non lascia scampo ed eleva ulteriormente la qualità del disco. Aggiungiamo infine il bell’episodio elettroacustico “Negative space” che fa pensare a dei Rolling Stones psichedelici in un’atmosfera anni ’60, ed abbiamo un prodotto splendido senza bisogno di farsi paranoie cerebrali o trasformare il mondo della musica a nostro piacimento. Tutto sommato è soltanto il caro, vecchio, eterno rock duro, ed i Gorilla lo suonano con dannata bravura.
Dunque da applausi l’entusiasmante lavoro del terzetto albionico che supera di slancio il già pur ottimo album omonimo, candidandosi con forza alla mia classifica di fine anno e presumo a quella di molti altri appassionati. C’è chi dice che lo stoner è defunto e magari avrà anche ragione, ma se gli eredi di quel filone sono gruppi come i Gorilla ed il loro sound ruvido, lisergico ed appassionato, potremo senz’altro evitare di vestirci a lutto.
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