Ho adorato gli
Alcatrazz fin dal primo contatto (avvenuto,
sob, nel lontano 1983, anno di uscita di questo debutto …), un po’ come credo tutti i
fans dei Rainbow, del resto, di cui rappresentavano una sorta di accreditato e credibile epigono.
Un giovane e funambolico chitarrista sponsorizzato dal
guru Mike Varney (lo aveva fortemente voluto negli Steeler, al fianco di Ron Keel, Rik Fox e Mark Edwards … un progetto acerbo, magari, ma meritevole di riscoperta …), con la foto di Ritchie Blackmore (ben nascosta) nel portafoglio, un batterista con Iron Butterfly e Alice Cooper nel
curriculum (e qui ricordiamo anche il suo contributo a “Loud & clear”, capolavoro assoluto dell’
hard melodico targato Signal …), un bassista e un tastierista di comprovata qualità (entrambi reduci dai fasti
pomp dei New England), si affiancano ad una voce capace di convincere personalità “complesse” come quella dello stesso
Man In Black o quella non meno imprevedibile di un certo Michael Schenker e realizzano un
album d’esordio di notevole spessore, figlio “legittimo” soprattutto di quanto acquisito da Graham Bonnet alla corte dell’
Arcobaleno più famoso del
rock.
Se, infatti, l’esuberante Malmsteen è fatalmente il primo magnete sensoriale di “No parole from rock'n roll”, l’eccentrico (capelli corti, camice hawaiane … “roba” non facile da accettare per l’integralista pubblico del settore …)
vocalist del Lincolnshire non è da meno, grazie ad un’ugola impregnata di
pathos e di granulosa pastosità che gli consente un “tallonamento” del suo passato artistico (ci proverà nuovamente con gli Impellitteri) piuttosto efficace e coinvolgente.
Brani come “Island in the sun”, “Jet to jet” (“curiosamente” non troppo dissimile da “Spotlight kid”), la suggestiva “Hiroshima mon amour” e la contagiosa “Too young to die, too drunk to live” non possono che ammaliare istantaneamente i sostenitori dei Rainbow più “radiofonici”, in virtù di un brillante connubio tra tecnica, melodia e forza espressiva (un equilibrio che il buon Yngwie non sempre è riuscito ad esibire nella sua carriera …), mentre “Kree nakoorie” aggiunge all’impasto un tocco di epicità esotica, anch’essa in realtà piuttosto familiare tra gli estimatori di queste tipologie sonore e “General hospital” sfrutta strutture armoniche dagli accenti abbastanza Schenker-
iani per conquistare l’astante.
“Big foot” mescola sfumature quasi liturgiche, cadenze drammatiche e fraseggi di osservanza Van Halen-
esque, “Starcarr lane” riprende ad affascinare con linee armoniche ficcanti e facilmente memorizzabili e “Suffer me” chiude il programma originale con un’adeguata dose di virile romanticismo, in fondo sempre bene accetto anche dai “duri” dal cuore d’acciaio.
Eh, già, “programma originale” … perché in tutto questo tripudio di
amarcord, quasi mi dimenticavo di rilevare che stiamo analizzando una ristampa firmata Metal Mind Productions, integrata da tre
bonus-track dal vivo (materiale non del tutto inedito, invero …), tra cui si segnalano le brillanti versioni di “Since you’ve been gone” e “Desert song”, riproposizioni di classici imperdibili della storia professionale di Bonnet, che arrivano a sigillare in maniera esemplare un disco certamente degno delle vostre preziose collezioni musicali.
Qualora non ne facesse ancora parte, sapete cosa fare …
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