S’intitola “Gravitas”, esce sotto il nobile vessillo degli
Asia, ma, ascoltandolo attentamente, potrebbe benissimo essere il nuovo capitolo della saga “Icon”, l’elegiaco progetto con cui John Wetton e Geoff Downes hanno anticipato la
reunion in forma autoctona della
band che ha regalato al loro ricco
curriculum vitae le maggiori fortune commerciali.
Non so dire se l’uscita di Steve Howe, sostituito dal bravo e tuttavia sicuramente meno carismatico Sam Coulson, oppure il coinvolgimento di John Mitchell in sede produttiva, abbiano in qualche modo contribuito ad avvicinare le due espressioni artistiche, quello che è piuttosto evidente nel quattordicesimo
studio-album dei britannici è un incremento della componente intimistica e riflessiva, a discapito di quell’attitudine istantanea e disinvolta che ha reso gli Asia uno dei campioni incontrastati del
prog-rock in declinazione
mainstream.
Una “conversione” degna di rilievo che, però, teoricamente, non dovrebbe deludere “troppo” gli storici
fans del gruppo, i quali immagino abbiano apprezzato enormemente anche i tre gioielli sonori pubblicati a nome Wetton – Downes, mentre sono quasi certo finirà per diventare oggetto di discussione e critica, dacché “Gravitas” , purtroppo, sembra fornire un’immagine vagamente “sbiadita” di quell’orientamento così intenso e spirituale, alterato, forse, anche dal tentativo di renderlo maggiormente fruibile e concreto.
Nulla di particolarmente “increscioso”, in realtà, soprattutto se ci si prende il “giusto” tempo per assimilare a dovere queste raffinate e melodrammatiche partiture, eppure nemmeno l’opulenta conduzione vocale di un sempre straordinario John Wetton e le tastiere immaginifiche di Geoff Downes riescono a scacciare completamente i “fantasmi dell’incompiutezza” da brani come “Nyctophobia” e “Russian dolls”.
Sul versante opposto, invece, laddove lasciata “attecchire” e “crescere” nei sensi dell’astante, l’epicità reiterata di “Valkyrie” ha i numeri per garantire discrete soddisfazioni emotive, e ancora meglio di lei fanno la
title-track del disco, grondante di
pathos, la delicata ed enfatica “The closer I get to you” e l’eleganza radiofonica (una vera “specialità della casa”, qui un po’ trascurata …) di “Heaven help me now” e “I would die for you”, per finire con "Joe Di Maggio’s glove” una ballata di sicura presa e con “Till we meet again”, una gradevole digressione di
folk-pomp-rock dalle cadenze fiere e
anthemiche.
Gli Asia attuali sembrano, dunque, apparentemente imprigionati in una sorta di
dorato limbo sospeso “tra cielo e terra”, e sopperiscono con l’immensa classe di cui sono dotati a questo momento “d’indecisione” … chiamatelo un piccolo calo ispirativo, se preferite, e poi affidatevi comunque a “Gravitas”, un disco che per parecchi rappresenterebbe abbastanza agevolmente l’apice creativo di un’intera carriera.
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