In fondo è “solo” un
album di
cover, ma rilevo molto più trasporto emotivo in questi vibranti solchi di note “riproposte” che in parecchi dei dischi di
vintage-rock che affollano la discografia contemporanea, in cui spesso, tra l’altro, si trovano riletture di brani immortali “spacciate” per pezzi nuovi.
I
Fungus, gruppo
anglo-italico che annovera tra le sue fila il nostro Diego Tuscano (Autodistruzione Blues, SanniDei, ElettroCirco, Shanghai Noodle Factory, …) e musicisti piuttosto preparati della zona di Bristol (il
drummer JP è membro degli Ulysses e il chitarrista Paul Wheeler suona anche nella Pedro Band) celebrano i loro idoli con un
live in studio davvero intenso e affascinante, capace di unire devozione e carisma, in un’impresa sempre piuttosto “rischiosa”.
Affrontare miti “veri” dell’
hard-blues come Robin Trower, Ted Nugent, Montrose, Bad Company e Free, e uscirne senza “le ossa rotte”, non è, infatti, semplicissimo e per scongiurare l’incombente effetto “parodia” sono necessarie vocazione autentica, disinvoltura e tecnica, tutta “roba” che la formazione custodisce in dosi copiose nel suo
DNA, permettendosi di sostenere con disarmante naturalezza un confronto sicuramente improbo.
Plauso particolare a Tuscano, un
vocalist di rara sensibilità (apprezzata dal sottoscritto fin dai tempi dei SanniDei …) che non smette mai di sorprendermi, sostenendo senza sfigurare addirittura il “peso” non certo lieve di “misurarsi” con un campione assoluto della fonazione modulata del calibro di Paul Rodgers.
Ebbene, ascoltate “Rock steady” o “Walk In my shadow” (targate Bad Company e Free, rispettivamente) e vi renderete conto di come si possa onorare un “maestro” senza tentare di scimmiottarne le inarrivabili prerogative artistiche, dimostrando, così, che i suoi insegnamenti sono stati adeguatamente metabolizzati e assimilati.
Complimenti dovuti, e per le medesime ragioni, anche per Mr. Wheeler, provetto discepolo di “gente” che sa far fremere in maniera straordinaria le sei corde di una chitarra, il tutto sostenuto da una sezione ritmica puntuale e compatta.
La scelta dei brani, poi, è vincente, testimonia la cultura e l’inattaccabile attitudine del gruppo, ci consente di compiere un doveroso “ripasso”, ci aiuta a ricondurre nella “giusta ottica” tante “novità” del settore e ci suggerisce altresì qualche più inconsueta opportunità d’indagine, magari sfuggita al “grande pubblico”.
Tra una pulsante “Day of the eagle” di Robin Trower, una brillante “Just what the doctor ordered” del “selvaggio” Nugent e una versione lievemente “ammorbidita” di “Make it last” dei fondamentali Montrose, trovano spazio, infatti, anche le focose interpretazioni di “Satisfy the Jones” e della Creedence-
iana “What if today was tomorrow“, tracce griffate Hazy Malaze (la
band di Neal Casal, noto soprattutto per l’attività svolta con Ryan Adams and the Cardinals), nome certamente meno seminale, eppure in grado di fornire un contributo significativo nel campo della glorificazione del
roots rock americano.
Un consiglio, dunque … cercate “Almost ALIVE at the Bunker” … un dischetto che apparentemente sembra senza troppe “pretese”, fatto esclusivamente per “passione” e "diletto" e che invece vi potrà dire pure un paio di “cosette” su quanto sia importante (ri)scoprire i “classici” (prima di entusiasmarsi per l’ennesima presunta
new sensation …) e sulle doti che sono indispensabili per essere veramente credibili in questi immarcescibili territori sonori.